Una notte da Leoni… di Lernia, con Chet Baker e l’Alfa amaranto

Non saprei dire esattamente dove mi trovassi. Sapevo soltanto che era estate, tardi pomeriggio, e c’era quella luce dorata che filtra tra gli alberi quando il sole si abbassa e tutto sembra sospeso. L’aria aveva quell’odore dolciastro di birra rovesciata su legno vecchio e di fumo che non se ne va, nemmeno se soffi forte. Sul palco, a pochi metri, si stava preparando un concerto che poteva essere benissimo il Peperoncino Jazz Festival… o il Pistoia Blues. In certi momenti mi convincevo che fosse Roccella Jazz, poi, in un lampo, ero sicuro si trattasse di Umbria Jazz. Quei festival che sanno di piazze colme di sedie di plastica, di vecchi amici che si ritrovano e di bicchieri di vino serviti in calici di carta.

Accanto a me, come se fosse la cosa più naturale del mondo, c’era Leone Di Lernia. Sì, proprio lui: camicia a fiori leggermente sbottonata, pelle lucida di sudore, un odore di colonia dolciastra che cercava di coprire il fumo. Sorriso sornione e quel modo di parlarti come se ti conoscesse da sempre. Stavamo ridendo e prendendoci in giro a vicenda. Io lo punzecchiavo con qualche battuta stupida in stile “Pè Provocà”, lui ribatteva ricordandomi i suoi “grandi successi” con un’aria che oscillava tra l’autoironia e l’orgoglio puro. Poi, senza che me ne rendessi conto, l’aria è cambiata. La sua risata si è fatta più tesa, lo sguardo più fermo, quasi un lampo d’ombra dietro le pupille. Un po’ per gioco, un po’ per sfida, Leone ha iniziato a sfoderare un arsenale culturale che non mi sarei mai aspettato. Prima qualche aneddoto su Tom Waits, poi Miles Davis, con una precisione che faceva sembrare tutto provato in tribunale. Poi Mark Knopfler, Van Morrison, Bob Dylan.

[Inserto onirico #1]

Non vedevo più il palco, ma una strada polverosa di fine agosto, in un pomeriggio che sapeva di ferro arrugginito e cicoria selvatica. Le sue parole si trasformavano in immagini: Miles era un vecchio grammofono che gracchiava in una veranda marcia, Dylan era il rumore di un camion che passava lento, Van Morrison una figura di spalle, in cappotto, che attraversava un campo di mais. C’era un ronzio nell’aria, come se una linea elettrica sopra la testa vibrasse piano. Non ero al festival. Ero altrove, in un ricordo che forse non avevo mai vissuto.

In pochi minuti, Leone aveva toccato il jazz anni Cinquanta, la Beat Generation, il cinema erotico anni Settanta, il folk revival, Stephen King, Hunter S. Thompson, Paul Auster. E, come a voler far vedere che non era finita, citava Pantere Nere, famiglia Kennedy, Rat Pack. Alla fine, per spegnere la miccia, ho fatto l’unica cosa possibile: gli ho riconosciuto senza esitazioni la superiorità culturale. Poi gli ho chiesto: “Sei così gentile da raccontarmi di quando ti sei ubriacato con Chet Baker e gli hai ammaccato la sua meravigliosa Alfa Romeo Amaranto Coupé?” Lui si è fermato, lo sguardo inchiodato sul mio. Ha bevuto un sorso dal bicchiere e ha cominciato.

La notte dell’Alfa color amaranto (che fa molto Paolo Conte, in effetti...)


“Era il ’79… o forse l’80” disse, e il festival si dissolse. Ero in un locale fumoso a Roma, luci basse, specchi appannati dal calore. Chet era al bancone, elegante come un vecchio manifesto pubblicitario, ma con le rughe di chi ha visto troppo. “Non volevo venire,” raccontava Leone, “ma un amico mi disse: ‘Vieni, c’è Chet Baker’. E io a quel tempo non dicevo mai di no a queste cose.” Il fumo era così denso che sentivo il bruciore agli occhi. La voce di Chet era velluto graffiato: poche parole, ogni tanto un sorriso stanco. Poi qualcuno propose un altro locale. Chet prese le chiavi della sua Alfa Romeo Amaranto Coupé. “Un amaranto che non era rosso, era come il vino lasciato un giorno di troppo sul tavolo” disse Leone.

[Inserto onirico #2]

Nel sogno, la strada non era di Roma. Era un ibrido impossibile: vicoli di Trastevere che finivano in una highway americana anni Settanta. L’asfalto lucido di pioggia, cartelloni pubblicitari sbiaditi con sorrisi di attrici che non riconoscevo. L’Alfa correva, e il rumore del motore era come un contrabbasso che pizzicava note lente e profonde. Lampioni si piegavano verso di noi, troppo vicini, come se volessero sbirciare nell’abitacolo. Una curva presa larga. Un colpo secco. Un lampione contro la fiancata. Vernice graffiata, metallo piegato. “Almeno non siamo morti,” disse Chet, e rise. Una risata senza gioia, come una battuta raccontata a un funerale. Leone stava arrivando al punto cruciale. Sentivo che la storia stava per svelare il suo segreto, ma la voce si faceva ovattata, come parlasse da dentro un armadio chiuso.

Per concludere

Poi, il suono. Non un applauso, non una tromba. Un trillo stridulo e crudele. La sveglia. Apro gli occhi: la stanza, le persiane socchiuse, l’odore di caffè ancora da fare. Provo a riaddormentarmi, ma Leone, Chet e l’Alfa Amaranto sono già spariti. E mi viene da ridere. Perché c’è qualcosa di perfettamente assurdo nel passare da un ricordo epico a un lunedì mattina. La prossima volta, la sveglia la metto un’ora dopo. Non per dormire, ma per finire quella notte. E, chissà, magari scoprire se il lampione ce l’aveva davvero con loro.


- Una storia onirica di Dario Greco -

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