My mistress’ eyes are nothing like the sun

Penso che le canzoni davvero degne, quelle che trattano il tema dell’amore con profondità, sia meglio ascoltarle dopo la fine di una storia, non prima. Perché concedersele prima o durante significa regalarsi un lusso che non ci appartiene, un vantaggio che non dovremmo mai lasciare al “nemico” in quella piccola sporca guerra che spesso è una relazione. Se dovessi dire qual è il più grande inganno dell’umanità, credo sia proprio la convinzione che due innamorati possano vivere in armonia. Per me, in una relazione autentica, non esiste nessuna armonia né fratellanza: piuttosto, è la cosa più vicina a una battaglia, a una guerra di confine tra due popoli in eterna rivalità. La vera armonia, invece, sta nell’amicizia: è quella l’unica carta sincera in un mondo fatto di conflitto, di scontri e di battaglie quotidiane.

Così come tu sei, sei tiranna quanto le altre, che la bellezza rende superbe: lo sai bene che per il mio cuore innamorato resti il gioiello più raro, lo splendore più autentico.

Quando ero molto giovane, spinto da una brama autentica di vita e scoperta, iniziai ad ascoltare le canzoni di Sting. Ne avevo sentito parlare da molti, ma se devo riconoscere una persona che me lo fece scoprire, non posso che pensare a un amico. Uno di quegli amici persi per strada, ma senza rancori, senza lasciare nodi irrisolti alle spalle. Come quando si chiude un ciclo per aprirne un altro, più luminoso. Ci conoscemmo in una notte di tuoni e fulmini, con un vento assurdo a spazzare via i pensieri, e ci salutammo alla luce di un giorno di eclissi. Una sensazione magnifica, che ti riconcilia con il mondo e ti fa sentire dentro un’opera di Shakespeare. Sto divagando, anzi no: il nesso tra il Bardo dell’Avon e questo scritto esiste, eccome, ma forse lo spiegherò più avanti… o forse no.

Vi dicevo di questo amico: aveva la mia stessa età, ma frequentava il liceo Europeo e coltivava una vera passione per le lingue straniere. Io, invece, ero un tamarro di periferia, vestivo male e leggevo i poeti beat. Fu la voglia di divertirsi, di fumare e di far baldoria ad avvicinarci, e poi a separarci. Non ci scambiammo mai libri né videocassette — di cinema ero appassionato solo io — ma in compenso ci passammo tante cassette musicali. Quelle cassette le infilavo nel mio walkman, l’immortale Sony che ho già citato in uno dei capitoli precedenti. Una pagina di adolescenza rimasta dietro di me, ma mai dimenticata né rinnegata.

Eppure il primo approccio con le canzoni di Sting non lo scorderò mai. Facevo il secondo anno di liceo scientifico, con risultati disastrosi, e con altrettanto scarso successo inseguivo quello che pensavo fosse amore — ma in realtà era solo Gin Tonic. In estate indossavo zoccoli di legno e jeans tagliati, un look che oggi verrebbe definito metrosexual, ma che allora nessuno tra i miei conoscenti portava. A ripensarci, non era affatto un abbigliamento decente, eppure lo difendevo come segno di unicità. Bisogna considerare che venivamo dagli anni d’oro del grunge: Seattle dominava la scena giovanile, anche se io non mi sentivo così influenzato da quel mondo.

In quel periodo scoprii i sonetti di Shakespeare. Una rivelazione che rese ancora più forte l’impatto con due album di Sting: …Nothing like the sun e Ten Summoner’s Tales. Un bagliore accecante, come il sole di luglio in un’estate infinita e indimenticabile dei miei sedici anni. Saranno state le Diana Blu che fumavamo, o tutto quel dannato gin tonic, eppure credetemi: quelle canzoni mi entrarono sottopelle, esercitando un potere lenitivo simile a quello di una Musa.

Io, nel frattempo, avevo una cotta per una ragazza che giustamente mi considerava solo un amico. Non ero abbastanza audace per dirle “ma vaffanculo a tia e a mammata!”, così mi rifugiavo nella musica.

“Scìupio vitale in scempio di vergogna è lussuria in azione, e lì, lussuria, è spergiura, di sangue e infamia sozza, brutale estrema incredibile cruda.”

Così soffrivo ascoltando Sister Moon di Sting, con in mano i sonetti di Shakespeare. Prima che vi scappi un moto di empatia o un sorriso di solidarietà, vi fermo subito: a quei tempi non ero affatto il simpatico burlone che forse credete di conoscere oggi. Ero un ragazzo complicato, pieno di complessi, con una smania di vita che si trasformava in una tragicommedia esistenziale. Immaginatevi Mr. Bean o il ragionier Fantozzi: al confronto erano medaglie d’oro olimpiche, mentre io arrancavo come dilettante alle Paralimpiadi dell’anima.

Lo so, sto di nuovo divagando. Ma la verità è che ho sempre pensato che la vera ironia non sia nel prendere in giro gli altri, né nel ridicolizzare i loro difetti. L’ironia più autentica è raccontare la vita in maniera sghemba, spiazzante, dicendo l’opposto di ciò che si pensa davvero. Proprio come ci ha insegnato Shakespeare: la sua grande lezione è che la vita è fatta di antifrasi.

“Quando quaranta inverni assedieranno la tua beltà, trincee scavando fonde, quei bei panni di gioventù, cui guardano tutti, saranno pezze da straccioni.”

Solo un vero uomo sa sopportare l’ignoranza con un sorriso. Ma io, allora, non lo capivo. Non riuscivo ancora a essere davvero me stesso, e non immaginavo che nella notte anche la luce di una candela può brillare quanto il sole. Era un’estate, forse proprio quella dell’eclissi. Passavo i giorni fumando, leggendo e bevendo, circondato dagli amici di quel periodo. Qualcuno potrebbe dire: “che estate sprecata!”, e forse avrebbe ragione. Ma io vi chiedo: come sono state le vostre estati, a sedici o diciassette anni?

Le mie, in fondo, avevano un senso. La sera, o talvolta nel pomeriggio, ci divertivamo davvero. Specialmente quando Michele arrivava con la sua chitarra e con il marocchino da sciogliere proprio sulle pagine della mia raccolta di sonetti di Shakespeare. E ditemi pure che leggere non serve a nulla. Io intanto alzavo il volume del walkman, facendo rumore apposta con i miei zoccoli di legno, passi incerti da Paperino in equilibrio su trampoli in miniatura. Mi sembrava di saltare con baldanza sopra ogni pagina triste della mia adolescenza, intonando mentalmente Little Wing.

Ecco, quell’estate capii che esistono storie che forse non funzionano sullo schermo del cinema, ma che hanno un valore immenso nella vita reale di un ragazzo disadattato di provincia. Uno che sapeva leggere e comprendere un sonetto di Shakespeare meglio di quanto sapesse bere, fumare, fare a botte o conquistare una ragazza.

E aveva ragione il buon vecchio Jack: “c’è troppa solitudine in questo mondo di struggimenti.”

“Non lasciar dunque che il rovaio sfregi la tua estate, distillati prima in qualche fiala dolce, un luogo eleggi al bel tesoro prima che si uccida.”

Le parole di Shakespeare, la musica di Sting, gli amici di quella stagione: tutto si intrecciava in una strana alchimia. Ogni nota, ogni verso diventava una piccola ferita e insieme una cura. La malinconia si trasformava in forza, la goffaggine in possibilità. Non avevo ancora capito molto della vita, ma sapevo che in quelle notti — tra sonetti e gin tonic, tra chitarre stonate e passi malfermi — si nascondeva qualcosa che sarebbe rimasto con me per sempre.

Di questo disco ci sarebbe davvero tantissimo da dire. Basterebbe citare un brano come Englishman in New York, dedicato a Quentin Crisp, per comprenderne l’importanza: non è soltanto una canzone diventata celebre, ma la sintesi perfetta di un lavoro intero. Al suo fianco brillano Sister Moon e altri episodi di altissimo livello come The Lazarus Heart, Fragile, Straight to My Heart e They Dance Alone. Titoli che, a rileggerli oggi, raccontano già da soli la sostanza di un album costruito su cuore e sentimento.

Non è un caso che la parola “heart” ricorra più volte nei testi e perfino nei titoli: Be Still My Beating Heart, Straight to My Heart e l’apertura affidata a The Lazarus Heart, che parla della morte della madre di Sting. Raramente, in seguito, l’artista avrebbe mostrato una tale intensità e una simile dedizione nel costruire un racconto coerente, personale e ispirato.

Eppure, a ben guardare, le tematiche dell’album sono molteplici: dalla perdita, affrontata in The Lazarus Heart, alla ricerca di un amore e di un’amicizia veri, passando per riflessioni intime che non rinunciano alla forza melodica e alla raffinatezza musicale. In questo senso, Nothing like the sun è un disco che riesce a essere universale proprio perché nasce da esperienze personali fortissime.

Ricordo ancora di aver letto una recensione firmata da Anthony De Curtis su Rolling Stone, in cui l’album veniva descritto come un’opera ricca di suggestioni, ispirata e completamente riuscita. Una definizione che condivido senza esitazioni: anche per me si tratta di un disco speciale, non solo per il suo valore musicale, ma per i ricordi a cui resta indissolubilmente legato.

Naturalmente, il legame con i sonetti di Shakespeare rende Nothing like the sun ancora più importante. Il titolo stesso proviene dal Sonetto 130, quello in cui il Bardo rovescia i canoni della poesia amorosa rinascimentale per raccontare una donna reale, fatta di difetti e imperfezioni, e per questo ancora più degna d’amore. Chi meglio di Sting, con la sua eleganza e la sua capacità di mescolare colto e popolare, poteva incarnare la figura del “fair friend” che domina la prima parte della produzione shakespeariana?

Per questo non ho dubbi: Nothing like the sun è uno di quei trenta dischi che porterei con me sulla famosa isola deserta. Non solo per il suo peso nella storia della musica, ma perché rappresenta un pezzo fondamentale della mia adolescenza, un’estate scolpita nella memoria, tra sonetti e gin tonic, tra amici e cassette consumate nel walkman.

“Gli occhi della mia donna non sono come il sole; il corallo è più rosso delle sue labbra. Se la neve è bianca, il suo petto invece è grigio; e se i capelli sono come filamenti, sulla sua testa crescono fili neri.”

Questi versi di Shakespeare, ripensati insieme alle canzoni di Sting, mi hanno insegnato che la bellezza autentica non è mai nell’idealizzazione, ma nella verità. Che l’arte, quando non mente, riesce a illuminare le nostre fragilità e a darci forza. E che la musica, come la poesia, diventa un modo per raccontare chi siamo e cosa vogliamo ricordare di noi stessi.

My mistress’ eyes are nothing like the sun - Una storia di Dario Greco


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