Bruce Springsteen e l'anima nascosta del cinema
Bruce Springsteen e
l’anima nascosta del cinema anni ’90 e 2000
Da Philadelphia ad Alta Fedeltà: il rock
racconta ciò che il cinema non sempre riesce a dire.
di Dario Greco
«Non ci capiamo mai del tutto finché non ci ascoltiamo come se fossimo una
canzone».
È un’apparizione ironica, ma anche dolente. Springsteen è lì perché Rob ha
bisogno di capire qualcosa che la sua testa non riesce a mettere in ordine, e
solo una canzone può farglielo capire. È lì perché Bruce è diventato, nel corso
degli anni ’90, la voce narrante di un’epoca interiore, quella di uomini
e donne in bilico, tra crolli e tentativi di resistere.
In quel decennio, e in quelli immediatamente adiacenti, Springsteen smette
di essere solo il cantautore della working class e comincia a diventare un
narratore parallelo del cinema americano, specialmente di quello più
riflessivo, più notturno, più doloroso. Non firma solo colonne sonore: entra
nei film come coscienza emotiva, come diario che canta ciò che i personaggi non
riescono a dire.
Streets of
Philadelphia. Fragilità di un eroe
Nel 1993, Jonathan Demme chiama Springsteen per aprire Philadelphia.
Nasce così uno dei momenti più potenti della storia del cinema contemporaneo. Streets
of Philadelphia non accompagna: parla prima delle immagini, le
prepara, le svela. Bruce canta: “Ain’t no angel gonna greet me / It’s just
you and I, my friend” e ci ricorda che la solitudine più dura è quella che
si attraversa pur essendo circondati da gente. La città è un deserto, la
malattia è la condizione esistenziale di chi non viene visto. È un canto
spoglio, senza orgoglio, che parla direttamente all’anima.
Dead Man Walkin’. La
compassione come condanna
Due anni dopo, Tim Robbins gira Dead Man Walking. Il titolo del film
diventa quello della canzone che Springsteen scrive per i titoli di testa. Una
voce sussurrata, quasi penitenziale, che accompagna il passo lento di Sean Penn
verso la sua fine. Bruce non giudica, non assolve. La fine non è più solo la fine, ma un viaggio.
E la canzone diventa un rituale d’addio, una carezza in un mondo spietato.
The Crossing Guard. Dolore
per una figlia perduta
Sean Penn, regista di The Crossing Guard (1995), racconta la storia di un uomo che lotta con il dolore e la rabbia per la perdita della figlia. Per questo film, Springsteen ha scritto la canzone Missing, un brano malinconico e scarno che esprime la sensazione di assenza e vuoto che accompagna un lutto tanto intimo quanto devastante. Bruce canta: “You’re missing when I shut out the lights / You’re missing when I close my eyes”.
La perdita è totale, in ogni gesto quotidiano, in ogni attimo di quiete che dovrebbe portare sollievo, ma che invece amplifica la mancanza. Nel film, la canzone diventa una voce interiore del protagonista, un’eco del dolore che non riesce a esprimere a parole. Non è semplice sottofondo, ma un elemento narrativo che rende palpabile la sofferenza invisibile. È un lamento spezzato, il canto di chi non riesce più a trovare il senso delle cose. La perdita non ha spiegazioni, e il dolore si infiltra nei gesti più semplici. Qui Bruce non descrive il lutto: lo abita.
Born on the Fourth of
July. Memoriale di guerra e dolore
Oliver Stone dirige nel 1989 Born on the Fourth of July, film basato
sull’autobiografia di Ron Kovic, veterano del Vietnam segnato per sempre dalla
guerra e dal senso di tradimento verso la patria. Anche se Born in the
U.S.A. e Shut Out the Light non compaiono nella colonna sonora, il
loro spirito è presente. Springsteen canta la disillusione di un uomo che torna
a casa “nato in America” ma esiliato dentro, un eroe che deve lottare per
ritrovare dignità e identità. “Born down in a dead man’s town / The first
kick I took was when I hit the ground” è un verso che sintetizza la
condizione di Kovic e di tanti veterani dimenticati, mentre Shut Out the
Light è un muto lamento che si riflette nelle scene più intime e cupe del
film. Nella soundtrack spicca Brown Eyed Girl di Van Morrison. Il tema
centrale del film, così come dell’autobiografia di Kovic, è il conflitto tra il
sogno americano e la realtà violenta e traditrice della guerra, un tema che si
riverbera anche nelle canzoni di Springsteen e nelle sue molteplici
collaborazioni con il cinema degli anni ’90.
The Indian Runner. Il cinema nato da una canzone
Nel 1991, Sean Penn debutta alla regia con The Indian Runner, film
ispirato direttamente alla ballata Highway Patrolman di Bruce. “Me
and Frankie laughin’ and drinkin’, nothin’ feels better than blood on blood”
recita il brano, e quella frase diventa il manifesto di un’intera narrazione:
due fratelli, uno poliziotto, l’altro disgraziato, che si amano oltre ogni
legge morale.
Il film è una trasposizione fedele e dolorosa di quella storia. Springsteen non
compare nei titoli, ma è l’autore spirituale dell’intero impianto.
Limbo – cantare la
soglia
Con Limbo (1999), John Sayles realizza un film su un’attesa che non
si scioglie. La canzone Lift Me Up di Springsteen chiude il film in modo
sospeso, mistico. “Lift me up, darling / Lift me up, and I’ll fall with you” È una supplica dolce, quasi in preghiera, che chiede di non essere lasciati
soli nel momento in cui tutto sprofonda. Nel buio dell’Alaska, mentre i protagonisti attendono un destino che non
arriva, la voce di Bruce diventa il loro unico pensiero non detto.
Secret Garden – il mistero dell’amore
The Fuse –
countdown esistenziale
La 25ª ora (Spike Lee, 2002) è
un film sull’ultimo giorno di un uomo prima del carcere. Un giorno che sembra
lungo come una vita. Nel finale, mentre Edward Norton immagina una vita
alternativa, parte The Fuse: “Down at the court house they’re ringin’
the flag down / Long black line of cars snakin’ slow through town”. La vita
scivola via, il tempo esplode. Springsteen canta il momento esatto in cui ci si
accorge che non c’è più tempo.
Reign Over Me
– sopravvivere all’assenza
Nel 2007, Reign Over Me racconta la storia di un uomo distrutto dalla perdita della famiglia l’11 settembre. Tra le tracce scelte, Drive All Night è la più struggente: “I’d drive all night just to buy you some shoes / And to taste your tender charms”. È la dichiarazione d’amore più folle, più inutile, e proprio per questo più vera. Springsteen canta il desiderio disperato di tenere in vita chi non c’è più, anche solo nella memoria.
Riassumendo...
Bruce Springsteen non è una colonna sonora. È un narratore parallelo. È l’amico che non vediamo, ma che sentiamo in cuffia mentre cerchiamo di ricomporre le nostre crepe. I registi degli anni ’90 l’hanno capito, e l’hanno voluto non per riempire i silenzi, ma per trasformarli in canzoni. E allora sì: Springsteen può davvero apparire nella tua stanza, come in Alta Fedeltà, e suggerirti la cosa più difficile di tutte. Come lasciar andare. O come restare, quando tutto ti dice di mollare. Nel cinema, come nella vita.
Testi a cura di Dario Greco e della redazione di The Wild, the Innocent and the Saint

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