Down the Road: viaggio nell’estate del 2002 tra musica e ricordi

Estate 2002, memoria di un ragazzo in cerca di sé

C’è un’estate che ogni tanto ritorna nella mia memoria, e non lo fa mai per caso. È l’estate del 2002, un’estate che potrei raccontare solo attraverso i dischi che la segnarono, le pagine che lessi e le immagini che scorrevano davanti agli occhi, quasi come fossero parte di una sceneggiatura scritta per me.
Avevo poco più di vent’anni e una delusione amorosa da smaltire. Niente di nuovo, a pensarci bene, perché ogni passaggio di età, ogni salto verso una nuova consapevolezza, ha bisogno di un dolore da superare. E io, ancora una volta, scelsi la musica come rifugio.

Bruce Springsteen aveva appena pubblicato The Rising e per me quelle canzoni erano un balsamo, un ritorno epico dopo anni di silenzio, ma anche un coro che dava voce a un mondo ferito. Poi c’era Van Morrison, con un disco che avrei imparato a conoscere a poco a poco, Saint Dominic’s Preview: un lavoro che mi prese per mano e mi fece capire che dietro il pop e il rock che amavo c’era un universo più vasto, fatto di spiritualità, poesia e improvvise epifanie sonore. I The Band, con The Very Best of The Band, erano come una bussola: radici, fratellanza, storie di un’America che non avevo mai visto ma che imparavo a sentire come parte di me. E ancora Tom Petty con Damn the Torpedoes, Bob Seger con Stranger in Town, i Dire Straits con Making Movies: ogni ascolto diventava una tappa, un appiglio, una piccola rivelazione.

E Making Movies non era solo un titolo tra gli altri: era il ricordo di Vittorio, collega di mio padre, che anni prima mi aveva fatto ascoltare Tunnel of Love a bordo della sua Autobianchi A112 blu scura. Un ex calciatore con l’orecchino al lobo sinistro e un giubbotto di pelle nera, che per me era stato più di un amico di famiglia: era stato un iniziatore. Quel giorno di quasi primavera in cui infilò la cassetta nel mangianastri e mi disse «Ojhi ti fazzu sentiri ‘na cosa ‘na pocu diversa», io non ero più un ragazzino di provincia. Per un istante ero altrove, travolto da quella musica come da un colpo improvviso, come da una rivelazione. E l’eco di quella folgorazione mi accompagnava ancora nell’estate del 2002, mentre cercavo di rimettere insieme i pezzi di me stesso.

Ma quella non fu solo un’estate di dischi. Fu anche l’estate dei campeggi in Sila, dove la notte si riempiva di stelle e la chitarra passava di mano in mano, mentre le voci si spegnevano tra il fumo dei falò. Fu l’estate in cui lessi per la prima volta Saul Bellow e Henry Miller, e in quelle pagine trovai un’eco di inquietudini che non sapevo ancora nominare ma che mi appartenevano. E fu anche l’estate del Signore degli Anelli, visto in dvx con gli amici, su uno schermo improvvisato e con quell’aria da scoperta collettiva che oggi il digitale ha cancellato.

A guardarla oggi, quell’estate fu un crocevia. Stavo ancora imparando a conoscere Van Morrison, eppure sapevo già che non sarebbe stata una conoscenza passeggera. Lo avevo incontrato per caso, quasi per scherzo, attraverso copie masterizzate di Astral Weeks e Moondance, e poi grazie a un acquisto improvviso di Down the Road. Non ero preparato, eppure ero pronto. Come quando un libro o un film ti arriva tra le mani nel momento esatto in cui serve, e ti cambia il modo di guardare il mondo.

Con il tempo avrei scoperto che Van Morrison era stato un punto di riferimento per artisti che già amavo: Springsteen, Seger, Waters. E con il tempo, grazie a qualche negozio di dischi di Cosenza che sembrava una miniera inesauribile, avrei accumulato album come Into the Music, Beautiful Vision, Veedon Fleece. Ma nell’estate del 2002 tutto era ancora agli inizi, e questa incertezza era la sua magia.

Se ci penso, quella stagione aveva il suono di un treno notturno che si ferma in una stazione deserta, e nelle cuffie risuona una canzone che non ti lascia più. Era la stessa sensazione che avrei provato l’anno dopo ascoltando Only a Dream: il tempo come promessa, la vita davanti come territorio ancora intatto. L’estate come simbolo di libertà assoluta, di possibilità infinite, prima che il tempo iniziasse a correre davvero.

Ecco perché quell’estate, più di altre, rimane dentro di me. Non per quello che accadde, ma per quello che cominciò a muoversi dentro. Per i dischi che misero radici, per i libri che aprirono spiragli, per le immagini che si sovrapposero alla mia giovinezza e la trasformarono.
Era l’estate del 2002. Era un ragazzo che cercava risposte nella musica, e che senza saperlo stava costruendo la colonna sonora di tutta la sua vita.


Dario Greco, blogger

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