Lonesome Road Blues

La musicassetta scivola nel registratore e all’istante la stanza si riempie di suono: Grateful Dead Live 1971. Le prime note di chitarra di Jerry Garcia si allungano come un respiro che attraversa ogni parete, ogni polvere sospesa nell’aria. Non è solo musica: è calore, respiro condiviso, un filo invisibile che lega la mia stanza a mille altre stanze, a mille altre anime che ascoltano lo stesso nastro in un tempo diverso, in un altro posto.

Peppe è seduto accanto a me, le ginocchia al petto, la testa appoggiata a Zaffiro. La tigre, stesa lungo il tappeto, muove la coda al ritmo di “Bertha”, e io rido piano, perché sembra capire tutto. Le nostre mani tremano leggermente quando afferriamo la bottiglia di vino economico, il fumo delle sigarette si mescola al profumo della cassetta, e la luce calda della lampada gialla scivola sulle pareti tappezzate di poster sbiaditi. Siamo una piccola comunità, chiusa in questa stanza, ma aperta a ogni nota, a ogni improvvisazione che Garcia regala al pubblico di quasi trent’anni fa.

La musica dal vivo ha un altro respiro: pause che ti fanno respirare, assoli che si perdono nell’infinito, improvvisazioni che sembrano casuali e invece ti prendono il cuore. Quando “Truckin’” parte, chiudo gli occhi e sento la polvere delle strade americane sotto i piedi, la malinconia gentile di un tramonto lungo, le strade polverose che corrono sotto i nostri sogni. Peppe carezza Zaffiro sulla testa, e la tigre inclina la testa come se sentisse ogni battito. Non servono parole: il legame è lì, nella musica, nel ritmo, nella stanza piena di risate e fumo e luce calda.

Verso mezzogiorno, o forse sera, non lo ricordo più, ci stendiamo sul pavimento a guardare la luce che filtra dalla finestra. La cassetta continua a girare, e con “Sugaree” sembra che il mondo rallenti. Ogni frase di Garcia è una storia sospesa, ogni assolo un sentiero da percorrere. Peppe sorride e mi passa una birra, e io la prendo con le mani che tremano per l’emozione di ascoltare, di essere lì, di condividere tutto questo con loro. Zaffiro si muove leggermente, quasi danzando senza muoversi, e io penso che la tigre è più viva di qualsiasi persona in questa stanza: comprende ogni nota, ogni vibrazione, ogni sogno sospeso.

Ci sono risate improvvise, scambi di sguardi, piccole battute che spezzano la malinconia. Anna batte il ritmo sulla bottiglia di vetro, Martina rolla sigarette lente e composte, Luca canta stonando ma con un entusiasmo che illumina tutto. Io e Peppe ci passiamo il vino, le mani che si sfiorano, gli occhi che ridono. Siamo tutti intrappolati nello stesso incantesimo: la musica ci tiene insieme, ci rende vicini, ci fa sentire comunità.

Quando parte “Wharf Rat”, la stanza diventa un piccolo teatro: ogni movimento di Zaffiro, ogni piega del tappeto, ogni scintilla di luce sembra coreografato con le note di Garcia. Io mi lascio cadere sul pavimento, testa tra le mani, e penso alle estati in cui correvamo lungo i vicoli con le casse in spalla, cercando di convincere altri ragazzi a unirsi a noi. La comunità non era solo fuori: era dentro, nei gesti, negli sguardi, nel modo in cui il suono ti attraversa.

Peppe mi guarda e sussurra: “Marco, ascolta come muove la testa.” È vero: Zaffiro sembra annuire, capire, respirare con noi. Io annuisco anch’io, sentendo il mondo come un insieme di fili invisibili che vibrano insieme al ritmo della chitarra e della batteria. La notte entra lentamente dalla finestra, ma non c’è freddo: c’è calore, c’è amicizia, c’è un senso di eternità che solo la musica dal vivo può dare.

Con “Ripple” tutto si calma. La melodia è dolce, fragile, come un quadro dipinto di luce gialla e polvere. Sembra di poter parlare al mondo senza pronunciare parole, di poter sentire ogni anima collegata a noi dalla stessa cassetta, dalla stessa improvvisazione di Jerry Garcia. Io scrivo sul mio diario anni ’90: parole tremanti, scarabocchi che raccontano ciò che il cuore non può contenere.

Ma la vera magia arriva quando ci alziamo e ci muoviamo come se la stanza fosse un palco improvvisato. Peppe prende la chitarra di legno scurito, e Anna batte il ritmo sul bordo della sedia, mentre Martina fischietta seguendo il basso della cassetta. Io improvviso un coro stonato, che suona esattamente come la nostra vita: disordinato, imprevedibile, bellissimo. Zaffiro si alza, si stiracchia e si muove lentamente tra noi, come se fosse parte della jam session. Ridiamo, cantiamo, balliamo sui tappeti macchiati, e fuori la città si dissolve nel crepuscolo, lasciando solo il calore di una comunità costruita attorno alla musica.

Racconto a Peppe della prima volta che Zaffiro mi ha seguito lungo la spiaggia di Scalea, quando ero ancora un ragazzo e pensavo che la vita fosse infinita. La tigre era solo un cucciolo allora, curioso e selvaggio, eppure subito capì la nostra amicizia. Ogni notte, quando la musica suona, mi sembra di rivedere quegli occhi gialli che brillano come le stelle di San Lorenzo, e sento che tutta la magia di allora è rimasta dentro di noi.

Verso mezzanotte, il falò che abbiamo acceso sulla terrazza illumina i nostri volti. La cassetta passa a “Uncle John’s Band” e improvvisiamo una danza lenta, lasciando che la melodia guidi i nostri corpi. Zaffiro, immobile, sembra osservare e proteggere il piccolo mondo che abbiamo creato: un gruppo di ragazzi del Sud, una tigre, una stanza piena di cassetta e sogni, una musica che sembra saper raccontare ogni cosa senza bisogno di parole.

Peppe mi guarda e dice: “Non esiste nulla di meglio di questo momento.” E io annuisco, sentendo il peso leggero della vita, la malinconia gentile che scivola come un ruscello tra le note di Garcia, e l’immensa fortuna di avere amici e una tigre che ti capiscono più di chiunque altro. La comunità non è fatta di numeri o di luoghi: è fatta di gesti, di risate, di mani che si sfiorano, di note che si intrecciano.

Quando la cassetta finisce, resta un silenzio pieno di ricordi, risate, sogni e strade polverose. Peppe dorme vicino a Zaffiro, il muso della tigre accoccolato sulla sua spalla. Io resto sveglio, ascoltando l’eco delle note che si è attaccato alla pelle, al pavimento, alla luce gialla che non smette di respirare. La comunità è viva anche adesso, invisibile e immensa, fatta di musica, di amicizia e di tigri che capiscono più di noi.

Scrivo queste righe sentendo ogni vibrazione residua nella stanza. La musica dei Grateful Dead non è suono: è compagnia, viaggio, amicizia, strade polverose, notti infinite. Io, Marco, ragazzo del Sud con un diario tra le mani e una tigre addormentata vicino, lo so: ogni cassetta è un invito a correre libero tra le note, a sentire il mondo battere insieme a te, a creare una comunità che non muore mai, anche quando la stanza torna silenziosa.

E quando chiudo il diario, so che domani torneremo a questa stanza, a questa magia, a questa musica che trasforma ogni piccolo gesto in eternità. La cassetta sarà pronta, Zaffiro vicino, Peppe e gli altri accanto, e noi a respirare insieme al ritmo improvvisato di Jerry Garcia, sapendo che non importa dove andremo: le strade polverose, la malinconia gentile e la musica resteranno sempre con noi.

Lonesome Road Blues - Una storia di Dario Greco

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