Lady Midnight

Lady Midnight - La fuggitiva


 I bambini mostrano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da svelare. Una cicatrice è ciò che avviene quando la parola si fa carne.  

(Leonard Cohen) 

E nonostante tutti i libri letti aveva una mente vergine e ignorante, impermeabile alla stanchezza: droga, alcool, niente poteva fermarlo. Soltanto una donna poteva ostacolarlo. E quella donna era Lei. Idealizzata ma anche autentica, con quel profumo delicato eppure pungente come il trillo di Satana. La sua musica si avvicinava alla poesia, al sentimento delle cose sfiorate, allusive solo in apparenza. “E m’innamorai ossessivamente per distruggermi” Lei non voleva che nessuno si sacrificasse per il suo amore. Forse sentiva di dover schivare tutti i colpi, e quando si gioca in difesa si rischia anche di perdere quel poco di bello che ancora ci resta a vivere. Lui invece era un guerriero impavido ed era arrivato con un coltello infilato fra i denti ancora una volta all’arrembaggio, pronto a non cedere di un passo a nulla tranne che a Lei. Sentiva una fitta sul lato sinistro del petto, eppure era completamente svuotato dalle proprie viscere e da tutti gli organi interni, era come uno di quegli animali imbalsamati. Alla stazione Termini osservò la fauna circostante, sembrava un luogo infestato da una natura umana deforme e reietta, terribilmente vitale nella sua mortalità. Un anziano barbone si avvicinò a lui chiedendogli una sigaretta, Egli gli porse l’intero pacchetto e fece un cenno con la mano a mo’ di benedizione, ma il barbone non capì, e allora emise un flebile: - Tieni pure tutto il pacchetto.

Aveva bisogno di un atto di bontà e qualcuno gli aveva appena offerto un piccolo soffio di beatitudine. Sentiva una strana energia provenire da quel posto. Una donna dai capelli grigi e arruffati parlava fra sé a voce alta, recriminando su una fantomatica lista della spesa sperduta fra i meandri della sua follia. Si sentiva fra persone in grado di poter capire il suo disperato dolore. Salì sul treno. Entrò in uno scompartimento vuoto e si accucciò sopra un sedile, sul lato finestrino, sollevando il cappuccio della felpa a mo’ d’elmetto difensivo. Entrò un uomo anziano ma vigoroso: unghie lunghe, jeans bianco stretto, una barba immensa, come quella di Dio, ibridata col pelo di un pastore maremmano. L’uomo, una versione calabrese di Ernest Hemingway, aveva appena terminato la sua condanna di dieci anni a Rebibbia, per aver accoltellato qualcuno in una rissa. Scambiò poche frasi con Lui, poi si addormentò di colpo. Aveva l’enfisema polmonare. Lui non se ne curò più di tanto: sentiva il rumore della notte annullare i suoi pensieri, a distanza di tremila chilometri, pensava a Lei, a tutte le pinte versate, al calore e alle parole che s’era tenuto dentro per paura d’inchiodare nel passato quell’attimo di Passione. Lei era stata spietata ma sincera, e lui era sempre più attratto, col suo masochismo epico e disperato. Era un infinito valzer di Leonard Cohen, distillato di lacrime guarnito con ciliegie sotto spirito. Una zolletta d’amarena e la sua “poesia del cazzo” a tenergli compagnia. A farlo sentire meno solo, cercando di capire, di obliare quel cattivo ricordo, ancora fresco: un’altra piccola cicatrice, stavolta invisibile arricchiva il personaggio. Provò a trattenere il fiato nella speranza di porre in apnea anche i suoi pensieri nefasti. Ripensò a quelle calze arancioni, inappropriate al suo stato d’animo e forse simbolo di una frivolezza ostentata più che autentica. A lui piaceva tutto di lei, la voce, le buffe espressioni del viso, la follia del suo sguardo passionale di male di vivere, insoddisfazione e desiderio di un rifugio dalla tempesta. Pensò a quella pasta troppo salata, la strana sensazione di sete, il massaggio ai piedi e la voglia di contatto umano."

Dai pure le carte, ma non pretendere che io debba stare al gioco. Hai detto di essere un guaritore, ma io non sto così male. E se tua sarà la gloria, mia deve essere l'infamia. 
(Leonard Cohen)


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