Born to run – Tutte le strade di Bruce Springsteen
È il 25 agosto 1975, Bruce Springsteen ha quasi 26 anni.
Born to run, il suo terzo album, celebra la vita on the road, attraverso la
voce e le speranze di due ragazzi in fuga, verso un altrove che li condurrà a
vivere una vita migliore. Ogni artista ha il suo feticcio, ma per certi artisti
il feticcio è una vera e propria ossessione. Una missione da compiere e da
portare a termine. A qualsiasi costo. Da costa a costa. LaCoste permettendo. E
mi perdonino, se possono, tutti gli skin che leggeranno questo pezzo. C’è una
promessa che va mantenuta, c’è un patto, spesso celebrato lungo il famoso
crocevia del tempo e dello spazio. Nel caso di Bruce Springsteen ci sono solo
due cose che contano davvero: la musica e la strada. Della musica di questo
celebrato artista si è detto tante volte, forse troppe. E troppe celebrazioni
alle volte fanno solo ubriacare. Ma nel rock si è visto anche di peggio.
Chiedere ad Elvis per credere. Provare per credere. Prove it all night.
Qui ci interessa però descrivere il rapporto tra Bruce Springsteen e la
strada.
Come per altri celebri artisti, penso a Jack London, Bob
Dylan o Jack Kerouac, la strada ha rappresentato tutto ciò che era davvero
importante. E reale. Con Springsteen l’importanza di descrivere qualcosa di
reale è fondamentale, quando non essenziale. In molti casi il successo di un
artista di questo genere è legato doppiamente al suo rapporto con la vita di
strada, alle avventure sognate, sublimate o vissute dal vero, il più delle
volte seguendo un percorso improvvisato, non definito. Il rapporto tra Bruce
Springsteen e la strada è lungo e duraturo. Già nel suo primo disco la
celebrazione del vivere alla macchia, on the road, sarà uno dei suoi marchi di
fabbrica. E’ così che costruirà e plasmerà la sua epica, una mitologia fatta di
ruote e di sudore, di giacche di pelle rubate a Marlon Brando, di corse nel
cuore della notte che sanno di ribellione con un causa, apparente e non.
David Bowie, musicista inglese che già all’epoca godeva di
una certa credibilità artistica, se ne innamorò, di questa estetica ruspante e
verace, e riproponendo due brani di Springsteen nel suo repertorio, il più
fortunato, It’s hard to be a saint in the city è uno spaccato urbano
iperrealista, non privo di umorismo e di episodi surreali e intriganti. La
strada, in tutti i suoi aspetti è al centro di buona parte della discografia
springsteeniana. Già nei titoli viene messa in primo piano: Jungleland, Street
of fire, Racing in the street, Out in the street, Thunder Road, Backstreets,
Incident on 57th Street, fino ad arrivare a Street of Philadelfia. Si tratta della stessa strada raccontata da Martin Scorsese
che in Mean Streets e in Taxi Driver è davvero vicina come scrittura e punto di
vista a quella poetica spingsteeniana, che nella mitologia del rock ha sempre
avuto un posto di rilievo al pari degli Stones, di Dylan e di Tom Waits. Anche
il regista Walter Hill, un autore duro e da uno stile secco e iperrealista, lo
cita ben due volte, e arriva a usare un suo titolo per quello che sarà uno dei
suoi film meno riusciti: Streets of fire.
Sean Penn al suo esordio dietro la macchina da presa guarderà a
Springsteen come modello per raccontare una storia di sangue, di fratelli e di
strade violente nel suo The Indian Runner.
La corsa pazza di Springsteen pare interrompersi dopo
l’ubriacatura amorosa di Tunnel of love, del 1987, dove uno dei suoi
protagonisti nella struggente e notturna Cautius Man, arriva a dire: Una notte
Billy si svegliò dopo un terribile sogno chiamando sua moglie per nome lei
giaceva respirando al suo fianco in un sonno sereno, mille miglia lontana lui
si vestì al chiaro di luna e si incamminò veloce giù verso l’autostrada quando
vi giunse non trovò nient’altro che la strada. Il tema della strada torna però nel successo e steinbeckiano
The Ghost of Tom Joad, quasi un seguito ideale di quel capolavoro e ancora
cinematografico che era stato Nebraska, tra Malick e Ford, tra
l’esistenzialismo e il nichilismo, ad un passo dall’isolamento e dalla
depressione. Saranno davvero tante le strade battute dalla sua chitarra e dalla
sua penna, sempre puntuale nel saper cogliere alcuni degli aspetti più
importanti e veri di questo mito americano.
Appassionato di auto, motociclista, e animo zingaro, Bruce
Springsteen ha davvero incarnato, in modo del tutto personale, l’eroe da lui
stesso celebrato e cantato più volte. Per chi ha amato dischi come Born to run,
che oggi compie 40 anni, e Darkness on the edge of town, non sarà difficile
ricordare il significato univoco di strada per Springsteen: tutto inizia e si
conclude con un colpo di acceleratore, con un cambio di marce, e con una corsa
folle lungo il sogno americano (che non c’è). Sotto questo punto di vista una
delle canzoni più rappresentative è certamente Racing in the street, uno degli
episodi maggiori di Darkness on the edge of Town. Il brano è ispirato alla pellicola
del 1971, Two-Lane Blacktop, diretta da Monte Hellman e interpretata da James
Taylor e Warren Oates, racconta di un pilota e del suo amico meccanico, i quali
girovagano per le strade del sudovest americano a bordo di una Chevrolet 150
truccata. Emblematico è l’incipit di Racing in the street, che parte proprio
con la descrizione di un’auto truccata e messa a punto da due amici, che di
giorno sbarcano il lunario come meglio possono, ma di notte corrono per vivere
o vivono per correre. “Racing In The Street”, uno dei vertici assoluti di Bruce
Springsteen, un inno sommesso che travalica il semplice significato di
“canzone” per farsi epico romanzo formativo prima del Watergate e del buio alle
porte. Musicalmente è un brano arrangiato alla perfezione, con un inizio scarno
ed essenziale, che cresce nella seconda parte, grazie anche alla coda
strumentale dove, chitarra, piano e organo si intrecciano, dando proprio l’idea
di un viaggio in auto, a marce basse. Quello che rimane però sono i due
protagonisti di questa ballata prevalentemente pianistica. Springsteen è sempre
stato molto abile nell’indossare i panni di persone autentiche, dell’uomo di
strada, del reduce del Vietnam, o dell’eroe della classe operaia, il Working
Class Hero, cantato dal suo idolo Lennon.
Ribelli, attaccabrighe o
semplicemente viaggiatori, uomini di passaggio che devono risolvere qualche
malaffare ad Atlantic City, o in un meeting nei pressi di un fiume. Non ha
importanza di quale sia la location o lo scopo: ci sarà sempre una strada, un
volante, un passaggio e un passeggero. Si tratta appunto della neo mitologia
americana, di cui Springsteen è stato per almeno 10 anni uno dei massimi
esponenti. Non è un caso che ancora oggi, a distanza di 30 anni, quando si
pensa ad una certa atmosfera notturna, di gare clandestine e di frizioni
bruciate, si pensa subito alla sua poetica stradaiola e suburbana.
Giacomo Leopardi nelle note del Zibaldone anticipa la
poetica springsteeniana di Born To Run, quando scrive: “La velocità è
piacevolissima, per sé sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita
di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea d’infinito. Sublima
l’anima, la fortifica.” Non molto distante, questo pensiero dall’inno di fuga
di Born to run, dove il protagonista invita la sua ragazza a tagliare con il
passato per camminare nella luce. Bruce Springsteen ha vissuto quelle strade,
ha cantato quel tipo di racconto scarno ed epico nello stesso tempo. I suoi
protagonisti sono cresciuti, invecchiati, qualche volta anche morti, sul sedile
di una Chevi. Hanno provato a camminare come gli eroi che volevano diventare.
La realtà però è fatta di altre cose. Springsteen questo lo sapeva, e per
questi motivi ha preferito creare dopo tanto viaggiare una casa dentro cui far
riposare questo animo inquieto e battagliero. I suoi eroi però vivranno per
sempre, e saranno sempre lì, pronti quando la notte li chiamerà a raccolta, in
un’ultima adunata, come in una celebre scena di un film di Walter Hill,
guerrieri, giovani ribelli, ragazzi di città e di periferia che preferiscono
essere protagonisti delle loro vite. Che preferiscono non accettare
passivamente quello che la vita vuole e pretende da loro.
Siamo nelle terre che Jack London chiamava Vagabonlandia
e che Springsteen contribuisce a ridefinire, portando il suo contributo a quel
Grande Romanzo Americano, dei Dos Passos, Faulkner e Steinbeck. Con una prosa
lucida, stringata e talvolta epica, Springsteen vive e racconta la strada, con
i suoi personaggi a metà tra l’eroismo da fumetto e lo spaccato urbano di una
città multiforme e multietnica. In questa miscela convivono le tante facce
dell’America e del suo sogno irrealizzabile. Ci sono dentro operai, reduci,
orfani e poeti, c’è dentro uno spaccato di vita che grida giustizia e pietà.
Sono ruote che vengono scambiate per ali, come dice in Thunder Road, canzone di
speranza e di redenzione. E’ una città di perdenti e noi ce ne stiamo scappando
per vincere. Al di là dei molti proclami però, i personaggi di Springsteen vivono
e incarnano la strada, il viaggio con consapevolezza.
C’è un prezzo da pagare e
a volte il biglietto è davvero troppo caro. Ci sono lungo la strada immigrati
che cercano un modo migliore per vivere, uomini a piedi lungo i binari, ragazzi
che sognano una vita migliore guardando dentro uno specchietto retrovisore. C’è
la strada nel suo significato simbolico e allegorico e c’è quasi sempre una
speranza, di raggiungere prima o poi una terra promessa.
C’è un protagonista, a volte solitario, a volte accompagnato
da un partner, in una scorribanda notturna. E’ una notte che brucia di vita e
di passione
Viviamo per desiderare, e cosi farò anch’io, e balzerò giù da questa
montagna sapendo tutto alla perfezione o non sapendo tutto alla perfezione
pieno di splendida ignoranza in cerca di una scintilla altrove.
(Jack Kerouac, Angeli
di desolazione)
Dario Greco
N.B.
Questo testo è stato scritto nell'agosto del 2015, in occasione del quarantennale del disco di Bruce Springsteen Born to run e pubblicato in origine sul sito To Be POP dello scrittore e giornalista calabrese, Stefano Cuzzocrea. Scomparso prematuramente nella primavera del 2015.
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