Cork, Dublino, New York, Jersey Shore, California ('75)
1. Cork, autunno 1975
L’autunno arriva a Cork come un soffio caldo impigliato nella lana dei maglioni, un respiro che sa di torba e mare, e io ci sguazzo dentro come se fosse l’unica stagione che mi somiglia davvero. Le foglie sembrano riflettere la voce di Van Morrison, verde scuro e irlandese come un’eco di qualcosa che non ho vissuto ma che riconosco. Veedon Fleece esce dagli altoparlanti del piccolo negozio di dischi su Winthrop Street, e ogni vibrazione dello strumento di Van mi sfiora come una stoffa preziosa, ruvida sulle braccia, morbida nella memoria. Il disco gira lento, ipnotico, e io mi ci perdo, immaginando di poter dissolvermi nel paesaggio che evoca: colline morbide, cavalli bianchi, un fiume che scorre come una frase non detta.
Sono giorni strani, quelli dell’autunno del ’75: il vento porta via l’odore delle piogge recenti, e noi siamo giovani abbastanza da credere che la musica possa salvarci. Forse lo faceva davvero, ma non sapevamo ancora riconoscerlo. Nel negozio, il commesso – capelli rossi, frangetta incoerente – sorride quando mi vede entrare. Sa già che prenderò un altro disco, che riaccenderò l’eterna discussione su chi stia scrivendo la verità più profonda: Dylan o Van Morrison? Io sostengo che Dylan scava, ma Morrison dissolve; Dylan incide, Morrison vibra. Lui ride. Dice che parlo come un giornalista, e forse un po’ è vero, anche se nessuno mi ha ancora chiesto di scrivere niente.
Quel pomeriggio le strade intorno al fiume Lee hanno il colore di una fotografia troppo esposta: tutto sembra vibrante, come se qualcosa stesse per accadere, qualcosa che non so prevedere. Sento un’urgenza nella pelle, un formicolio simile a una rivelazione. Forse è solo la musica nuova che ho tra le mani, ancora incellofanata. O forse è il desiderio di partire, di vedere dove portano quei dischi, quei nomi, quei suoni che mi chiamano da un’altra parte del mondo.
Quando poi, pochi giorni dopo, prendo l’autobus per Dublino, Veedon Fleece risuona in testa come una preghiera inquieta, e il paesaggio fuori dal finestrino si srotola come una lunga pellicola verde che non ha fretta di finire.
2. Dublino, e la promessa di un altrove
Dublino odora di pioggia recente e di storie non concluse, il tipo di città in cui ti aspetti che qualcuno inizi a raccontarti qualcosa senza motivo. Forse è per questo che, appena arrivato, finisco in un pub vicino Grafton Street dove un tizio con la barba folta e la camicia di flanella mi chiede se Blood on the Tracks sia davvero l’album più sincero di Dylan. Io rispondo che è una confessione travestita da folk, un dolore lucido che scorre come vino secco da bicchieri di vetro incrinato. Lui spalanca gli occhi, come se avessi detto qualcosa che aspettava da tempo, e ordina due birre. Così comincia la sera.
Parliamo di canzoni come se fossero persone vive, con difetti e manie, e ogni volta che nomino una frase o un accordo mi sembra di sentire la luce del locale cambiare tono. In realtà non cambia niente, ma sinestesia è solo un’altra parola per dire che la musica è più vera del mondo che la contiene. Quando parte “Tangled Up in Blue” dal giradischi dietro il bancone, il pub sembra accendersi di un rosso caldo, quasi liquido, mentre fuori scende una pioggerella sottile che trasforma le strade in specchi tremolanti.
Ho vent’anni, forse ventuno, e mi illudo di capire l’amore solo perché so riconoscere la malinconia nelle note. Ma in fondo è questo il bello dell’essere giovani: credere che gli album parlino direttamente a te. E così, tra un sorso e l’altro, tra una citazione sbagliata e una storia inventata, decido che non posso restare ancora in Irlanda. C’è qualcosa negli Stati Uniti, qualcosa che chiama come un fischio lontano, e io non ho altra scelta che seguirlo.
Il volo lo prendo tre giorni dopo. Ho nello zaino quattro dischi, un quaderno, e la sensazione che se non parto adesso non partirò mai più. Mentre l’aereo stacca da terra, penso a The Heart of Saturday Night di Tom Waits e alla sua capacità di rendere romantica persino la solitudine. Forse cerco proprio quello: una solitudine bella, sporca, piena di neon e sigarette.
3. New York, Born to Run e il wall of sound
New York nell’autunno ’75 è un animale vivo, enorme, che respira a ritmo di sax e pneumatici, e quando arrivo mi sembra di essere precipitato dentro un film che non ricordo di aver accettato di girare. Manhattan ha il colore dell’elettricità, un blu metallico pieno di riflessi, e ogni volto che incrocio sembra sapere più di quanto dica. Le strade sono piene di storie, molte delle quali non vogliono essere ascoltate. Io ascolto comunque.
Il primo negozio di dischi in cui entro è sulla Third Avenue, un posto stretto, soffocato da poster, in cui Born to Run sembra suonare in loop, come un mantra urbano che non ha bisogno di spiegazioni. Springsteen è ovunque: nelle radio dei taxi, nei bar, nei fumogeni dei concerti improvvisati. Ragazzi con giacche di pelle e stivali logori rincorrono un sogno che somiglia troppo a un treno in corsa. Io mi ci riconosco, almeno un po'.
C’è qualcosa nel suono di quella chitarra, nel sax di Clarence Clemons, che mi trascina via dalla mia stessa vita e mi scaraventa sul bordo di un’autostrada immaginaria. Quando ascolto “Thunder Road”, la città si tinge di un arancione bruciato, come se il cielo fosse diventato un enorme riflettore cinematografico. Lì capisco perché sono venuto: per respirare la stessa aria dei dischi che amo, per toccare fisicamente l’energia che li ha generati.
Una sera, al Matt’s Tavern, incontro una ragazza della Jersey Shore, occhi chiari e una bottiglia di birra che tiene come fosse una promessa. Mi parla di Asbury Park come se fosse una città sacra, un luogo in cui la musica non si limita a suonare ma cammina sulle strade con passo umano. E mentre parla, mi sembra di vedere la costa, la tavola delle onde che si riflette nel neon dei diner, i musicisti che si scaldano le mani in attesa del loro turno.
Così finisco per seguirla. Non lei in particolare, ma il suo racconto. Prendo un autobus per il New Jersey e, come in un presagio, la costa appare davvero come me l’aveva descritta: blu profondo, piena di vento, e con un romanticismo sgualcito che sa di motel economici e di segreti mai confessati.
4. Jersey Shore: luci sfumate, canzoni infinite
La Jersey Shore dell’autunno del ’75 non ha nulla dell’estate rumorosa che mostrano le cartoline. È quieta, sfumata, quasi cinematografica nel suo restare sospesa tra malinconia e possibilità. Cammino sul boardwalk con le mani in tasca e Born to Run che pulsa ancora in fondo allo stomaco, e sento che questa costa – piatta, infinita – assomiglia a un solco di vinile, un luogo in cui ogni passo è un graffio sul tempo.
Nel piccolo negozio di dischi vicino al molo trovo anche The Heart of Saturday Night. Lo mettono sul piatto, e subito l’aria cambia colore: diventa un viola profondo, fumoso, da jazz club sotterraneo. Waits canta come se avesse ingoiato tutta la notte d’America, e ora la sputasse fuori in forma di poesie stanche ma splendide. È musica che odora di bourbon e incenso, e mentre la ascolto mi sembra di essere parte di qualcosa che non ho vissuto ma che sto per vivere.
Eppure, mentre sto lì, con la copertina tra le mani, capisco che il mio viaggio non è finito. Devo andare ancora più a ovest. Devo vedere quella California che la musica mi ha promesso: Los Angeles che brucia come un’insegna al neon, Pomona che vibra di polvere e motori, Laurel Canyon che custodisce la memoria silenziosa di chi ha scritto la colonna sonora del mondo.
Così ricomincio a muovermi. Cambio autobus, prendo passaggi, poi un volo interno, e alla fine atterro in una Los Angeles che sembra uscita da un sogno febbrile: gialla, sporca, immensa. È un luogo che ti accoglie e ti divora nello stesso istante, ma io non ho paura. O forse sì, ma la musica è uno scudo migliore di quanto lo sia il coraggio.
5. California '75: una poesia ubriaca tra Tom & Neil
La California dell’autunno ’75 è un lampo dorato che taglia il mondo in due. Los Angeles si riversa su di me con la violenza di un romanzo di Bukowski, ma io ci nuoto dentro come se non potessi affogare. A Pomona il caldo è polveroso, sa di asfalto e motel dimenticati; lì immagino Tom Waits seduto su un ballatoio che fuma una sigaretta mentre osserva il mondo disfarsi lentamente. Laurel Canyon, invece, è un’altra cosa: un sussurro, una collina piena di spiriti gentili e melodie che scendono dalle case come profumo di caffè.
È lì, su una terrazza di legno che guarda la città, che ascolto On the Beach di Neil Young per la prima volta in terra americana. Il suono è un’onda lunga, lenta, piena di rassegnazione e speranza, come un tramonto che non decide se spegnersi o esplodere. La chitarra taglia l’aria con la delicatezza di un vetro sottile e, mentre Young canta, la città si tinge di un blu profondo, quasi notturno.
Mi accorgo allora che ho percorso un intero continente seguendo soltanto voci, solchi, copertine, atmsofere. E in tutto questo, l’idea più buffa è che nei negozi di dischi – quelli di Cork, di New York, della Jersey Shore, della California – ci fosse già tutto quello che stavo cercando. Ero felice, ma non lo sapevo.
La sera in cui lo capisco, cammino lungo Sunset Boulevard con The Heart of Saturday Night che mi sfuma nelle orecchie e un vento tiepido che sa di rivoluzioni possibili. Penso a tutti i dischi del ’74-’75, alla loro capacità di rendere il mondo più vivo del mondo stesso, e mi sento per la prima volta parte della stessa conversazione.
Forse non sarò mai famoso come Cameron Crowe e non scriverò romanzi come Nick Hornby, né berrò quanto Lester Bangs. Ma so che, in quell’autunno del ’75, ho visto la musica trasformare le città, e le città trasformare me. E forse è tutto ciò che serve per sentirsi vivi.



…”Sono giorni strani, quelli dell’autunno del ’75: il vento porta via l’odore delle piogge recenti, e noi siamo giovani abbastanza da credere che la musica possa salvarci. Forse lo faceva davvero, ma non sapevamo ancora riconoscerlo…” Più Dylaniano di così, non è possibile, forse solo Guthrie ha fatto un viaggio più profondo negli States.. L’atmosfera mi parla di una beat generation mai dimenticata
RispondiEliminaVerissimo. E' proprio così!
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