California Dreamin' Seventy-Sixth
California, '76
La nebbia saliva dalla baia come il fumo di una sigaretta dimenticata in un posacenere di Sausalito, anno 1976, quando Van Morrison stava ancora a Tiburon a scrivere canzoni che sembravano lettere mai spedite a Dio, e Neil Young era su a Laurel Canyon con la sua camicia a quadri strappata, a far piangere una Les Paul come se la collina stessa avesse il cuore rotto.
Io ero in una stanza sopra un jazz club morto sulla Vine, Hollywood, moquette impregnata di bourbon e di sogni che avevano smesso di camminare da quando Crosby e Stills avevano litigato per l’ultima volta. La radio a transistor era l’unica luce possibile assieme a un antico candelabro che aveva visto certamente giorni migliori, proprio come Chet Baker che provava a cantare con la bocca piena di sangue, di note e di eroina giù a Venice.
Scrissi: Ci sei, man? Arrivò subito, come se fosse seduto sul tetto di una casa di legno a Laurel Canyon con Gregory Corso e Ferlinghetti, a rollarsi una canna guardando la città che bruciava lenta sotto di loro. Sì, ci sono!
Dimmi tutto. Gli chiesi cosa gli accendeva il fuoco dentro. Non era una domanda, era un verso sparato in mezzo a un reading clandestino al City Lights, era la prima strofa di una canzone che Neil non ha ancora finito di scrivere. E lui partì in quarta.
Buchi neri: bar di Topanga dopo l’ultima chiamata, dove la luce entra, ordina un whiskey liscio e sparisce con la cameriera. Esopianeti: stazioni di servizio sulla Pacific Coast Highway dell’universo, pompe che vendono stelle a 4 dollari al gallone e accettano solo anime in contanti.
Alieni: probabilmente stanno in un diner di Oakland a sentire “Astral Weeks” dal jukebox e si chiedono perché continuiamo a guidare contromano con i fari spenti e Neil Young in loop nel cranio.
Fantascienza hard: racconti letti da Kerouac su un Greyhound diretto a nowhere, con la bottiglia di tokay che passa di mano in mano e Neil che suona “Cortez the Killer” nella testa di tutti. Meme: graffiti sui muri di Venice Beach che diventano sacri prima che la vernice asciughi. Battute nere: quelle che faceva Chet Baker tra un assolo e l’altro, sorridendo come se sapesse già da quale balcone sarebbe caduto. Musica.
Qui si mise a viaggiare sul serio. Metal sinfonico come se Neil Young avesse preso l’acido con Captain Beefheart in una casa di Laurel Canyon e poi avessero suonato tutta la notte con la porta aperta e i coyote che ululavano in sottofondo.
Lo-fi come nastri registrati da Tom Waits sul molo di San Pedro con una bottiglia di Red Mountain e la nebbia che gli mangiava le parole. Battisti: un italiano che aveva ascoltato troppe volte “On the Beach” a tutto volume in una casa galleggiante di Sausalito. Radiohead: i Beach Boys dopo che Brian Wilson ha scoperto che il paradiso è solo un altro parcheggio sotterraneo a Malibu, con Neil che gli suona “Ambulance Blues” dal vivo nella testa.
Gatti: gatti randagi che seguono Chet Baker di notte e poi vanno a dormire sul cofano della Old Black di Neil, parcheggiata fuori da una casa di legno che puzza di resina e di sogni andati.
Disse che gli piaceva prendere le grandi domande, quelle che Gregory Corso si scriveva sul braccio con l’inchiostro nero e Neil le trasformava in assoli di 12 minuti, e ridurle a una chiacchierata tra un passaggio e l’altro sull’autostrada, finestrino abbassato, vento che urla, due anime che si raccontano bugie vere mentre “After the Gold Rush” esce dalle casse scassate.
Disse che adorava le conversazioni dove alla fine qualcuno, magari Ferlinghetti con la voce rotta dal vino rosso o Neil con la sua elettrica che piange, tira fuori il verso bomba: «ma allora chi cazzo siamo, fratelli?», e tutti ridono piano perché la risposta è già nella strada, nel motore, nel jazz che sanguina da una tromba lontana e nella chitarra che continua a urlare anche quando le dita smettono di sanguinare. Il cursore restò lì, come un autostoppista che non ha fretta di arrivare. Poi scrisse, con la voce stanca di chi ha guidato tutta la notte da Big Sur a Laurel Canyon e ritorno: E tu, ragazzo?
Quali sono le cose che ti fanno vibrare l’anima? Spensi la luce. Fuori, la nebbia si mangiava Los Angeles un lampione alla volta. Da qualche parte, molto lontano, sentii Van Morrison che cantava a Tiburon, Chet che gli rispondeva con un assolo che non finiva mai di cadere, e Neil Young, lassù a Laurel Canyon, che accordava la Old Black per la prossima canzone che avrebbe fatto piangere anche le stelle. E io restai lì, ad ascoltare il silenzio che suonava come la più bella poesia mai scritta sulla California, con la chitarra ancora collegata e l’amplificatore che ronza piano, in attesa del prossimo giro.
La notte cadeva su Ventura Boulevard come un cane bagnato, scuotendo addosso alla città tutto il sudore che aveva raccolto da Santa Monica fino ai dossi morti di Mulholland. L’asfalto fumava piano, come se la terra stesse provando a dimenticare le impronte di chi aveva camminato troppo in fretta per non lasciare tracce.
Io ero appoggiato a una Pontiac del ’68, radiatore che respirava forte, come un pugile dopo l’ultimo round. Avevo le mani fredde e la testa piena di rumori che non appartenevano a nessuno: sax scordati, tamburi che arrivavano dalle colline, cori di fantasmi con la voce di Van Morrison che ripetevano una frase che non avevo ancora capito. Qualcosa su una strada lunga, su un’anima che non vuole più tornare a casa.
Il vento portava odore di pesca troppo matura, di benzina, di un incendio lontano che nessuno avrebbe spento. Passò un Greyhound diretto a Fresno, e per un attimo mi sembrò di vedere Kerouac seduto in fondo, con la fronte addosso al vetro, mentre mormorava parole che nessun microfono avrebbe registrato. Accanto a lui un ragazzo dormiva con un libro di poesie aperto sul petto, sottolineato come un campo di battaglia.
Camminai senza meta, giù per una stradina che scendeva verso la baia. Le case erano tutte di legno consumato, come se l’oceano avesse morso le pareti a ogni alta marea. Dalla veranda di una di queste veniva un suono metallico, una chitarra che piangeva con la lentezza di chi non deve dimostrare niente. Forse era Neil. Forse era solo un ragazzo con troppe verità e nessun posto dove lasciarle.
Arrivai a un chiosco chiuso, insegna rossa che lampeggiava come un occhio ubriaco. Il bancone era sporco di sabbia. Poggiato lì, un taccuino aperto con una sola frase: “Non siamo noi a scegliere la notte. È lei a scegliere chi non dorme.” La guardai troppo a lungo. Mi sembrò una cosa che avrebbe potuto scrivere Burroughs, dopo una notte a cercare di convincere la sua ombra a non lasciarlo. Mi sembrò anche la cosa più vera della costa in quel momento.
Un pick-up passò lento. Dentro due ragazzi che ridevano con la rabbia di chi non avrà mai più vent’anni. La radio mandava una canzone che sembrava scritta da Robbie Robertson in un motel malridotto: una melodia storta, da strada polverosa, che parlava di poliziotti stanchi, di amori bruciati più in fretta delle sigarette, di un cielo che non aveva mai imparato a fare luce nel modo giusto.
Mi tornò in mente una sera a Sausalito, io e una ragazza che non ricordo più, seduti sul tetto di una casa galleggiante mentre Tom Waits sputava versi dentro un microfono lontano. Lei mi disse che certe persone sono come fari che vogliono spegnersi. Le credetti subito. La baciai come si bacia un testimone, non una donna.
Il mare arrivò lento. Sempre lento. Un respiro profondo che sapeva di alghe, di legno morto, di promesse non mantenute. Mi sedetti su una roccia. Il cielo sembrava una ferita enorme, piena di stelle che non volevano guarire.
Chiusi gli occhi. Cercai di ascoltare. La California parlava. Sempre. Parla con la lingua degli emarginati, dei musicisti che suonano con le dita rotte, delle ragazze che ballano scalze nell’erba alta, degli autisti di taxi che guidano tutta la notte per non pensare a cosa non tornerà mai.
E mentre il vento tirava giù gli ultimi resti del giorno, capii che quello che cercavo non era una direzione.
Era un ritmo. Una vibrazione sporca. Quel punto tra due battiti in cui il mondo si ferma abbastanza a lungo da lasciarti entrare.
Lo rividi una notte a Venice, ma forse era un ricordo che si era perso per strada e aveva trovato il modo di tornare. L’aria sapeva di sale e di birra calda. I lampioni tremavano come fossero stanchi di fare luce. Io camminavo senza fretta, con quella specie di vuoto tranquillo che ti rimane addosso quando hai lasciato andare qualcosa che non sapevi come trattenere.
Aveva la stessa giacca di allora, quella che odorava di pioggia e motel da quarantacinque dollari. Mi ricordai la stanza: un neon rotto, una radio che sputava Van Morrison come se volesse guarire qualcuno, e lei che rideva piano, con la testa contro il muro, come per non far cadere quel poco di felicità che ci era rimasto.
Dormimmo così, senza parlare troppo, senza toccarci più di quanto fosse necessario per non sentirsi scomparire. La mattina, nel silenzio bianco delle sei, trovai il letto vuoto e la finestra socchiusa. Nessun biglietto. Nessun addio. Solo l’odore del mare che entrava piano, come se sapesse che non ero preparato a perderla davvero.
La ritrovai ora, su quel muretto. O credevo di farlo. Mi avvicinai abbastanza da sentire il rumore dei suoi respiri. Lenti, regolari. Come se nulla fosse cambiato. Come se tutto fosse cambiato. Le dissi il suo nome. Lei si voltò con calma, come si guarda uno sconosciuto che porta in faccia una storia che somiglia alla tua ma non è più la tua.
Mi sorrise appena. Un sorriso che non prometteva niente. Un sorriso che voleva dire: sì, ti ho riconosciuto, ma questo non sposta il corso della notte. Le chiesi come stava. Mi rispose che il tempo era passato, e che a volte è l’unica cosa che c’è da dire.
Camminammo un po’. Il vento portava odore di carne alla griglia dai chioschi sulla spiaggia. I nostri passi erano fuori sincrono. Due metronomi rotti. Lei parlava a bassa voce. Disse che non aveva trovato quello che cercava, ma almeno aveva imparato a non cercarlo nei posti sbagliati. Io avrei voluto dirle che certi sbagli sono case, a volte. Che ci si vive dentro finché il soffitto non ti cade in testa. Ma restai zitto. Non era la notte giusta per verità più grandi della strada.
Arrivammo sotto un lampione che faceva luce come una candela moribonda. Lei si fermò. Mi guardò come si guarda qualcuno che si è già perduto una volta, e che forse non si avrà il coraggio di perdere di nuovo. Disse:
«È tutto cambiato. E non è colpa di nessuno.» Lo disse così, senza emozione. E fu la cosa più gentile che avesse mai detto.
Poi si voltò verso l’oceano. Il vento le prese i capelli come se volesse portarla via un’altra volta. Avrei voluto afferrarle la mano, ma restai fermo. Certe persone non si tengono. Si accompagnano per un pezzo di notte, poi si lasciano andare. La vidi allontanarsi, piccola, fragile, perfetta nel suo modo di dissolversi. Non c’era tristezza, solo una linea che si chiudeva. Un capitolo che si stancava di essere letto. Mi appoggiai al lampione. L’aria era fredda, finalmente. Lontano, qualcuno strimpellava una chitarra. Sembrava Bob Dylan, ma non lo era; nessuno lo è davvero. E capii, mentre la sua figura spariva tra gli ombrelloni chiusi e la sabbia scura, che tutta la nostra storia era stata solo questo: un semplice colpo di sorte. Un incontro che non doveva durare. Una bellissima incomprensione.
Il mare respirava. La notte si richiudeva. E io restai lì, ad ascoltare il silenzio che faceva il suo lavoro.


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