Restless Farewell
"Oh, tutto il denaro che ho speso in vita mia, che fosse mio di diritto o meno, l’ho lasciato che scivolasse volentieri nelle mani degli amici..."
Così comincia Restless Farewell, l’ultimo brano di The Times They Are A-Changin’. L’ho riascoltata qualche notte fa, tornando a casa da solo, dopo aver attraversato la strada che sale da Cosenza verso Montalto Uffugo. Era tardi, il motore ronzava piano, e la voce di Dylan scivolava nella radio come un vento caldo che non consola, ma accompagna. Certe canzoni non passano: restano lì, come un pezzo di vita incastrato tra una curva e l’altra, come il viso di qualcuno che non hai mai davvero dimenticato.
Lei era la mia girl from the North Country, ma il nostro nord era il nord della Calabria, con le sue colline color ferro e il cielo basso d’inverno. Aveva i capelli scuri e gli occhi che sembravano contenere tutti i silenzi del mondo. L’ho incontrata una sera in un bar di Cosenza, mentre fuori pioveva forte e dentro l’odore del vino copriva tutto. Mi chiese se poteva sedersi, e quando sorrise capii che non avrei più guardato un’altra donna allo stesso modo.
Parlava poco, ma ogni parola era scelta con la cura di chi sa quanto pesa.
Diceva: “non serve capire, basta restare”, e in quel verbo c’era già tutto. Io, che non sono mai riuscito a restare da nessuna parte, le credetti come si crede a una promessa che non si può mantenere.
"Le bottiglie sono finite, ce le siamo scolate tutte.
E il tavolo è pieno e trabocca,
e il cartello all’angolo dice che è ora di chiudere."
Con lei ho imparato che la fine non arriva mai all’improvviso. Si prepara in silenzio, come una marea lenta.
Passavamo i pomeriggi tra Montalto e le colline, a guardare le nuvole scivolare sopra gli ulivi. Lei fotografava tutto, io scrivevo appunti su fogli stropicciati. Le nostre mani si cercavano senza motivo, solo per non restare vuote. Non eravamo felici, ma eravamo vivi — e per un po’ fu abbastanza.
Poi cominciò a tirare quel vento che cambia le cose senza far rumore. Lei parlava meno, io bevevo di più. Le sere si allungavano, le parole si accorciavano. E un giorno, semplicemente, smise di venire. Non fu un addio, fu un’assenza che si fece abitudine.
Mi scrisse solo una volta: “il vento gira da nord oggi”. Io risposi: “lo so”. E non ci siamo più cercati.
"Ogni donna che abbia mai toccato non l’ho fatto per ferirle,
e ogni donna che ho ferito non l’ho fatto consciamente."
Dylan lo cantava nel 1964, ma sembra scritto per chiunque abbia amato troppo tardi. Non credo di averla ferita apposta. Forse l’ho solo delusa nel modo in cui deludi chi ti guarda davvero.
Lei aveva bisogno di qualcuno che restasse, io di qualcuno che mi lasciasse andare.
E così abbiamo sbagliato, ma in silenzio, con la dolcezza che hanno gli errori inevitabili.
Cosenza d’inverno sa di legna e malinconia. Le luci dei lampioni tremano come ricordi che non vogliono spegnersi. Ogni tanto, quando torno, passo davanti a quel bar. È cambiato nome, ma dentro mi sembra ancora di sentire il suono del bicchiere che posava sul tavolo, la sua risata breve, la musica che veniva da un jukebox troppo vecchio per essere spento.
Lei vive ancora lì, credo. L’ho vista una volta, anni dopo, davanti a una galleria.
Indossava un vestito chiaro e teneva in mano una macchina fotografica. Mi vide, ma non si fermò. Mi sorrise appena, quel tanto che basta per ricordarmi che non c’è rabbia in certi addii. Solo la consapevolezza che nulla può tornare come prima.
"Il tempo non è tutto, eppure dal tempo dipendiamo,
e nessun amico possiede una parola speciale..."
Mi ripeto queste parole come una preghiera. Il tempo passa, ma certe voci restano ferme, inchiodate nel cuore.
Lei è diventata una canzone, la mia canzone. Non nel senso romantico, ma nel senso in cui certe melodie ti salvano senza promettere nulla. Quando ascolto Restless Farewell, sento che sto ancora parlando con lei, da lontano, come se le mie parole potessero attraversare il vento e arrivarle addosso senza far male.
"E quindi manterrò la mia posizione,
e resterò quello che sono,
e dirò addio senza che me ne importi nulla."
Non è vero che non gliene importa. Né a lui, né a me.
È solo che a volte bisogna fingere indifferenza per sopravvivere.
Scrivere, dormire male, bere il giusto per non ricordare troppo. E poi, quando il vento gira di nuovo, lasciarsi attraversare senza difendersi.
Ci sono notti in cui torno su quella strada tra Montalto e San Fili, e il paesaggio sembra identico. Le luci, l’odore della terra bagnata, il silenzio che arriva dalle montagne. Ma in realtà è tutto diverso: il mondo continua a muoversi, solo io resto fermo in quella canzone che non finisce mai.
Penso a lei e mi chiedo se ha trovato pace, se qualcuno la fa ridere ancora con la stessa leggerezza. Se ogni tanto, per caso, le capita di ricordare me.
Non le scriverò mai.
Non perché non voglia, ma perché certe distanze non vanno violate. Ci sono amori che resistono solo se restano sospesi, come fotografie scattate prima del tramonto. Avvicinarsi significherebbe cancellare tutto.
Così preferisco tenerla qui, in questo spazio dove la musica incontra il ricordo e il vento non smette di soffiare.
"Oh, un orologio finto cerca di ticchettare il mio tempo,
per infastidirmi, distrarmi, annoiarmi,
ma se la freccia è diritta e la punta acuminata,
può attraversare la polvere più spessa..."
A volte la vita sembra proprio così: un orologio che gira a vuoto, una polvere che copre ogni cosa. Ma lei è stata la mia freccia. Non ha colpito in pieno, ma ha attraversato abbastanza da lasciare un segno.
Non ci siamo salvati, ma ci siamo riconosciuti. E questo, in fondo, basta per restare vivi.
Adesso, ogni volta che passa un treno nella notte, penso che potrebbe esserci lei da qualche parte, dietro un finestrino, a guardare la pioggia battere sui vetri.
Vorrei dirle che non ho mai smesso di ascoltare quella canzone.
Che ogni verso di Dylan mi riporta a noi, a quella luce bassa di gennaio, a quel vento del nord Calabria che non smette mai di cambiare direzione.
"Dirò addio finché non ci incontreremo di nuovo."
E se mai la incontrerete, ditele che sto bene.
Ditele che non provo più rancore, solo una dolcezza un po’ stanca.
Ditele che non l’ho dimenticata, ma che non la cerco più nei sogni.
E soprattutto ditele — con la voce più calma che potete — che se un giorno dovesse pensarmi, lo faccia senza malinconia.
Perché certe persone non finiscono. Restano come un verso che non trova mai la rima giusta, ma continua a cantare lo stesso, dentro chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo almeno una volta.
E così, ogni volta che parte Restless Farewell, mi torna tutto: la pioggia, le colline, il suo profumo, la mia distanza.
Allora chiudo gli occhi e penso solo questo: se la vedete, salutatela da parte mia.
Ditele che l’ho amata, e che nel vento del nord Calabria — ancora oggi — mi sembra di sentirla camminare accanto.
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