Dieci pillole springsteeniane - Seconda parte

 


Pillola #6 - Jungleland (1975)

C'è questa "Soft Summer Rain" che fa da proscenio per una spettacolare battaglia tra la realtà e la fantasia. C'è una band schierata come una gioiosa e furiosa macchina da guerra. C'è un assolo di sax che vale una carriera e un disco. Jungleland è un racconto teso, vibrante, capace al contempo di riprendere atmosfere e temi cari a Martin Scorsese e che saranno mandati a memoria da Walter Hill in almeno un paio di occasioni.
In piena resa incondizionata da Saigon, Springsteen sembra quasi citare quello che è stato il "nemico" per gli States e per la sua sfortunata generazione. Come diceva Ho Chi Minh infatti: "Bisogna armare d'acciaio i canti del nostro tempo. Anche i poeti imparino a combattere. Springsteen mette in scena una battaglia degna di un fumettone sgangherato ed esagerato anni settanta. La sua potenza poetica sta tanto nelle parole quanto nella tessitura sonora di questa operetta rock. È teatrale nel senso più nobile del termine, spettacolare e immaginifico quello che ascoltiamo e vediamo.
Mastodontica e didattica lezione di rock da bar impartita dal suo autore che qui viene sostenuto in modo evidente dai suoi sodali. Impossibile prescindere dalle note del piano di Bittan, dalla batteria tempestiva di Weinberg, ma soprattutto dalle scudisciate della chitarra dello stesso Springsteen, il brano arriva a giro di boa, nella versione studio, sospeso tra archi e corde, ma a un certo punto lascia il ruolo di protagonista al sax di Big Man Clarence Clemons. Non è accreditato nell'arrangiamento e può anche starci, ma provate a pensare se Springsteen non si fosse imbattuto in questo colosso dal sorriso sornione. Avremmo avuto questa esecuzione e quindi questo break sonoro che funge al contempo da climax. In quelle note di sax c'è dentro un'idea di comunità, di identità sonora e di biglietto di presentazione. Il grande pubblico non ha ancora scoperto Bruce Springsteen e sarà proprio il passaparola e la magniloquenza di questa epica chiusura a fare del disco Born To Run quel capolavoro che tutti ora ben conosciamo e ascoltiamo. In una calda dolce estate maledetta due ragazzi fanno un patto di sangue. La loro amicizia durerà per sempre. All'epoca i fan di Springsteen pensavano fosse una grande epica suite di dieci minuti. Adesso, 45 anni dopo si conosce la realtà dei fatti (e dei patti). Il legame di unione che Springsteen stabiliva con la sua comunità, non può essere spezzato. Non questa notte, non se siamo pronti a scendere in strada e a batterci in una battaglia spirituale, da combattere a colpi di rullante, sassofono e Telecaster.
Fuori la strada è in fiamme in un vero carosello di morte, tra ciò che è reale e ciò che è fantasia. E i poeti quaggiù non scrivono niente di tutto questo, stanno solo alla larga e lasciano che tutto sia. E nel pieno della notte giunge il loro momento e cercano di fare un'onesta figura. Si ritrovano feriti, nemmeno morti, stanotte nella Jungleland.

Pillola #7 - Drive All Night (1980)
"Giuro che guiderò tutta la notte solo per comperarti un paio di scarpe e assaporare il tuo dolce fascino. E voglio solo dormire stanotte ancora tra le tue braccia."

Ci sono canzoni dotate di un fascino primordiale, essenziale, capaci di conquistarti al primo ascolto. Questi brani nel tempo spesso vengono sostituiti da altri, con il medesimo effetto. Drive All night appartiene invece a una categoria diversa. E' un pezzo intimo, che ti coinvolge e ti stravolge lentamente, attraverso il processo degli ascolti ripetuti. Del resto si trova posizionata come penultima traccia di un doppio album come The River, che contiene ben venti brani. Prima di arrivare qui, facendo un ascolto regolare abbiamo già ascoltato diversi brani lenti (ballate se preferite il termine) come Independence Day, I Wanna Marry You, The River, Point Blank, Fade Away e Stolen Car. Essere preceduta da ben sei canzoni introspettive potrebbe essere un limite, un punto di penalità, che tuttavia non scalfisce per nulla il fascino primordiale di Drive All Night. Mettetevi comodi e lasciatevi trasportare da questo ritmo, perché si tratta di una sequenza ritmica che simula la frequenza cardiaca, di un cuore che sta soffrendo, che si strugge. Il miglior ascolto di questo brano è sicuramente quello notturno, non perché il pianoforte suonato da Springsteen stesso citi Chopin, come avrebbe fatto un David Sancious, ma perché in effetti, il tema è quello: vagare nella notte, con un'anima ferita, lacerata. Guidare in una zona poco trafficata aiuterebbe, ma in alternativa ogni statale può fare al caso nostro.
Gli strumenti entrano lentamente, ma si fanno sentire davvero tutti, come la chitarra, l'organo e ancora una volta il sax di Clarence Clemons che si ritaglia il solito ruolo romantico e lirico. Eppure se c'è qualcosa di magico e speciale in questa lunga canzone che si protrae per oltre otto minuti è da rintracciare nella voce espressiva e calda di Springsteen. Qui infatti il suo fraseggio ricorda davvero molto i maestri Otis Redding e Van Morrison. In particolare lo stile del nordirlandese sembra essere il calco e il modello di riferimento. Del resto le ballate di Van Morrison sono passate alla storia della musica, per pathos, intensità e capacità di mettere in connessione ogni appassionato di buona musica che si rispetti. Drive All Night è come un balsamo, una canzone capace di rimetterci in contatto con il nostro Io, di farci trovare la strada, seppur dolorosa, verso la guarigione. Non è un pezzo per tutte le stagione, forse, ma se dopo un paio di ascolti vi avrà conquistati, quando arriverete come me a oltre 300 ascolti, sarete del tutto inermi e conquistati dal soul possente, dallo spleen infinito di questo lamento per amanti feriti, forse perduti. Poche canzoni sanno tirare fuori sensazioni e atmosfere come Drive All Night, non solo nel canzoniere springsteeniano, ma per tutto quello che riguarda la canzone d'autore americana di quel periodo.

Pillola #8 - Backstreets (1975)
Posizionata alla fine del lato A in un disco che per Springsteen era un all-in con tutte le fiches messe sul tavolo, Backstreets ci trascina via dalla libertà della notte verso il buio del fato. Non sa ancora il suo autore che il fato gli sarà favorevole ed in questa tensione emotiva che il brano sbanca e convince tutti. Ancora una volta l'estate è protagonista, solo che i tempi sembrano essere cambiati rispetto alla baldoria e ai festeggiamenti del boardwalk, anche se in realtà è trascorso poco più di un anno. Ed è stato un periodo dolce e amaro per il suo protagonista. C'è ancora innocenza e c'è ancora la wildness, ma qualcosa sembra essere cambiato, irrimediabilmente perduto. Si sogna ancora, ma ci sono elementi paranoici, di una tensione palpabile, che si taglia a fette con un coltello a serramanico. Il brano si apre con una proverbiale ed epica introduzione condotta dal pianoforte e dall'organo. Del resto tutto il disco è dominato dal piano di Roy Bittan e in questo brano è proprio lui il protagonista assoluto, al pari della voce del suo interprete. Non è una volata rock di tre minuti, ma qualcosa di più epico, perentorio e leggendario. Ancora una volta Springsteen sembra guardare a Van Morrison, in quello stile cadenzato, nella ripetizione ossessiva di un verso che farà da vero e proprio marchio di fabbrica con quel mantrico Hiding on the backstreets. C'è un lamentoso assolo di chitarra che fa da cornice al gran finale di questa storia di amicizia e di amore infedele. Un'estate malata e ossessiva incombe sui protagonisti di questa vicenda. Terry è una vagabonda di cuori, mentre l'io narrante si descrive come un gaglioffo di periferia come tanti, che sogna in grande mentre dorme in una casa sulla spiaggia abbandonata. Non ci vuole molto a immedesimarsi in questa vicenda, così come non possiamo fare a meno di pensare a questo giovane e irsuto autore che si descrive come un piccolo Marlon Brando o un Dean di periferia, che tenta invano di respirare il fuoco sacro in cui è nato. La potenza delle immagini e della storia è retta alla perfezione da una tessitura sonora audace e potente, che si annoda come un cappio intorno al torace per poi salire in gola, strozzando un urlo che l'eroe recide come se fosse il nodo gordiano del rock and roll.

Nella prima versione non definitiva Springsteen citava il Re Elvis Presley, con la sua Hearbreak Hotel, in seguito sostituita dall'ultimo lp dei Duke Street Kings. Abbracciati nelle nostre auto in attesa del rintocco delle campane nel cuore nero di una notte che sembra non voler cedere il passo alla luce del giorno. Eppure chiunque abbia atteso l'alba estiva sa bene che non sono poi così lunghe le notti di piena estate. Non ha importanza però, perché qui stiamo affrontando territori immaginifici degni di quella fabbrica di sogni che è stata la Hollywood classica. Solo che Springsteen non guarda al cuore patinato di certo cinema, piuttosto il suo è un Detour nelle pellicole di serie B proiettate in un drive-in di periferia. Ricordi tutti i film Terry, che andavamo a vedere cercando di imparare a camminare come gli eroi che pensavamo di dover diventare. Siamo dalle parti delle ruvide battaglie del fato, come diceva Ralph Waldo Emerson nel suo saggio Fiducia in se stessi. Danzando lentamente nel buio sulla spiaggia a Stockton’s Wig dove vanno gli amanti disperati, canta Springsteen mentre la musica oscilla tra la grandezza e la mestizia, con la batteria che parte cupa e distante, per poi salire di volume e di intensità, mentre la narrazione giunge al climax. Colonna portante di Born To Run e dell'intera architettura musicale della prima carriera di Springsteen, Backstreets assumerà un ruolo ancora più centrale nelle esibizioni dal vivo, quando Bruce aggiungerà quell'intermezzo noto con il titolo di Sad Eyes (non il brano presente su Tracks 4), che farà da canovaccio per la scrittura di quel capolavoro speculare che risponde al nome di Drive All Night.


Pillola #9 - Badlands (1978)
"Non me ne frega niente delle vecchie e già girate scene. Non me ne frega niente di quelle ancora in corso. Tesoro, io voglio il cuore, voglio l'anima e voglio il controllo in questo istante."
Chi ha detto che non ci sono legami di parentela e continuità stilistica tra Born To Run e il suo cupo e duro sequel, Darkness on the Edge of Town? Probabilmente sarà stato un ascoltatore distratto, dato che il manifesto programmatico con cui questo quarto strepitoso disco inizia è piuttosto eloquente. Le chitarre in evidenza, come la batteria di Weinberg, annunciano un suono teso e asciutto, ma non privo di brio e di gioia. Saranno semmai i testi a caratterizzare in un contesto di luci (poche) e ombre (tante) questo disco dove Springsteen mette ancora una volta sul tavolo il meglio del suo armamentario.
Qual è la sua arma vincente? Il suono? Forse, in certi frangenti sicuramente. La coesione e la compattezza di una band che aumenta di volume e di organico, grazie all'innesto dell'ottimo chitarrista ritmico, Consiglieri e amico, Steve Van Zandt. Il chitarrista di origini calabresi non se ne sta certo in disparte. Consiglia, suggerisce e si incazza pure, con il suo stile da pirata burbero, ma in fondo bonario, come solo certi meridionali sanno fare. Badlands è tutto un irrompere e prorompere di tamburi. Tamburi nella notte che rischiarano fuochi sempiterni mai spenti. C'è meno sax, ma c'è un grande sassofonista che sa ritagliarsi quei pochi spazi urbani, di furente gioia e possente brama agonistica, da ex giocatore di football, quale è stato.
L'opening a cui si affida il suo autore è un brano nervoso ma non nevrotico, potente al punto giusto e incediario. Un ritmo che proprio come She's the one paga il debito verso quel grande innovatore che è stato Bo Diddley. Springsteen non ha mai nascosto l'ammirazione (forse la venerazione) per i grandi maestri del rock and roll, i cosiddetti pionieri. Diddey viene tirato in ballo più volte dal Boss, persino in una delle sue liriche più coinvolgenti e guascone, come Seaside Bar Song (Bo Diddley, Bo Diddley's at the Seaside Bar/ We'll run barefoot in the sand, listen to his guitar).
Badlands è di sicuro una delle canzoni più importanti a battuta alta, composta da Springsteen dopo Born To Run. Non sarà stata una killer hit come singolo, ma forse questo alla lunga è stato più un punto a favore, che non altro. Ma cosa ci faceva Bruce sperduto tra le Badlands in cerca di identità dopo un periodo di pugni in faccia ricevuti da persone che fino a poco prima pensava fossero fraterni amici? Imparava a vivere e a stare a galla, probabilmente. La sua musica saliva di intensità e il fuoco sacro che domina gli arrangiamenti di questo disco, resterà per sempre nei cuori oscuri e nei solchi di un sogno americano effimero e fatalista.
Secondo Bud Scoppa proprio Badlands e Promised Land sono gli squadrati mid-tempo rock che fanno da battistrada come pneumatici anteriori ad alta prestazione. Non capita spesso che qualcuno sia capace di esplicitare con tale verismo sentimenti di ribellione e disapprovazione verso la realtà circostante. Aspra lotta contro l'alienazione che ci circonda e tenta di ghermirci, Badlands è lo squillo di tromba con cui Springsteen approda a un sound più maturo, asciutto e coeso. "Per quelli che hanno la certezza radicata in loro che non è peccato essere felici di essere vivi."

Dario Greco

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