Così quieto qui, così in pace adesso
"Aveva cinquant’anni e niente più da aspettare. Ogni giorno si alzava, si lavava il viso in silenzio, prendeva un caffè troppo caldo da una moka vecchia e scheggiata, poi scendeva giù, al supermercato dove lavorava da ventisette anni.
Era il cassiere più anziano, il più preciso. Mai una lamentela, mai un ritardo. Ogni tanto gli affidavano la cassa centrale, quella per gli assegni e i reclami, ma non gli piaceva. Preferiva il suo piccolo spazio, dove scansionare i codici a barre era diventato un gesto ritmico, quasi ipnotico. Nessuno gli chiedeva mai niente, a parte dove fossero le uova o l’acqua in offerta. Era solo da molto tempo. Gli amori erano passati come treni mai presi. Gli amici, persi in un tempo vago, ormai tutti sposati o lontani. Ogni sera tornava a casa, mangiava poco, si sedeva sul divano e restava immobile, a fissare il nulla.
Pensava spesso a quello che non aveva fatto. Non aveva viaggiato, non aveva scritto il libro che sognava a vent’anni, non aveva mai imparato a suonare la chitarra, né a cucinare bene. Le risate vere, quelle che ti piegano in due, le aveva dimenticate. Quella sera di novembre sembrava identica a tutte le altre. Pioggia fine sui vetri, un po’ di vino rosso nel bicchiere, la televisione spenta. Aveva persino pensato di scrivere due righe. Non un biglietto d’addio, niente di così teatrale. Solo un appunto: “Mi dispiace non averci provato davvero.”
Si alzò per prendere il cappotto. Ma poi successe. Un urlo acuto. Un miagolio. Due gatti stavano litigando sotto la sua finestra. Si affacciò, infastidito. I due animali si rincorrevano tra le auto parcheggiate, arruffati, arrabbiati, vivi. E in quell’agitazione, in quell’istinto brutale e senza scopo, c’era qualcosa di irresistibile. Una scintilla. Una risata, quasi. Rise davvero, per la prima volta da settimane. Si voltò, ed entrato in casa lo stereo, rimasto acceso per caso, cominciò a suonare. La voce di Van Morrison riempì il silenzio. L’introduzione lenta, le note liquide, la voce calda come un abbraccio: “Sirene che soffiano nella notte, l’aria salmastra nella brezza del mattino, macchine che corrono lungo la costa… dev’essere questo il senso di tutto. Dev’essere questo ciò che chiamiamo paradiso. Così quieto qui, così in pace." Rimase fermo. Poi si sedette di nuovo, non più come prima. Si lasciò cadere con un sospiro, come se fosse tornato da un lungo viaggio. “Lo sguardo radioso sul tuo volto, e il tuo cuore che batte vicino al mio, la sera che sfuma nel bagliore delle candele… dev’essere questo il senso di tutto. Dev’essere questo ciò che chiamiamo paradiso. Così quieto qui, così in pace adesso.”
La musica ebbe un effetto catartico; gli ricordava chi era stato, chi era ancora, chi poteva essere, volendo, sognando, sperando... forse. Non un poeta, non un musicista. Ma un uomo. Uno come tanti, uno qualunque. Eppure, bastava questo. Bastava la luce soffusa nella stanza, il calore del vino che pizzicava le labbra, il canto di Van che lo cullava e lo guariva, per rendere la vita, la sua piccola, mediocre, normalissima vita... degna di essere vissuta.
“Tutte le mie lotte nel mondo, e così tanti sogni che non si sono avverati…fai un passo indietro, lascia andare tutto. Non importa, non importa più.”
Non contavano più le occasioni perse, i rimpianti, le paure. Contava quel momento. La consapevolezza che anche una vita semplice può contenere il paradiso. Nella musica. Nella pace. Nella quiete improvvisa del cuore. “Un bicchiere di vino con degli amici, a parlare fino all’alba ti rilassa la mente. Dev’essere questo il senso di tutto. Dev’essere questo ciò che chiamiamo paradiso.”
Non aveva amici quella sera, ma poteva chiamarne uno, forse. Non aveva grandi sogni, ma poteva fare un gesto piccolo, gentile. Scrivere un messaggio a sua sorella, prepararsi un piatto che gli piacesse davvero, comprare un biglietto per un concerto. Riprendere la chitarra, anche se era tardi. O forse era proprio ora. “Grandi navi nella notte, e noi che galleggiamo tra le onde, navigando verso un’altra riva, dove possiamo essere ciò che vogliamo essere… dev’essere questo ciò che chiamiamo paradiso.”
Lasciò che la canzone finisse. Si alzò, sorrise appena. Aveva ancora le chiavi in mano, ma non per uscire. Accese una candela. Mise su dell’acqua per una tisana. E per la prima volta da mesi, fu contento di restare sveglio.
Una storia di Dario Greco


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