Vento, sole e sax: un' estate senza fine
Le notti non finiscono all'alba nella via, me le porto lo
stesso a casa, facendo una rapsodia. Le notti non finiscono come vorremmo, non
per davvero. E anche ora, anni dopo, con il rombo della Renault 5 GT Turbo che
mi rimbomba ancora nelle orecchie come un’eco lontana, sento la Costa Tirrenica
che mi chiama. È una sirena crudele, fatta di salsedine e promesse non
mantenute, di giostre arrugginite che non girano più e di calci in culo che ora
mi mancano come si può mancare un pugno in pieno stomaco. La musica non si è
mai fermata, però. Quel subwoofer che pulsava vicino al mare, quella serenata
selvaggia di Bruce Springsteen, è ancora qui, dentro di me, come una cicatrice
che non smette di prudere. Sono passati anni da quelle sere di maggio, da Bruna
e dai suoi capelli indomiti, da quei pantaloni bianchi che mi facevano tremare
le ginocchia. Ora ho 30 anni, una patente sgualcita nel portafoglio e una
macchina che non è né una Lancia Delta né una Golf Cabrio, ma una Punto scassata
che mi porta dove voglio, anche se non so più dove voglio andare. Non sono più
il ragazzo che sognava di scappare, o forse sì, ma ora la fuga ha un sapore
diverso: non è più un’esplosione di adrenalina, ma una lenta deriva, un
galleggiare su onde che non si infrangono mai del tutto. È di nuovo giugno, e
la Costa Tirrenica non è cambiata. Le luci sono ancora lì, tremolanti, come se
anche loro fossero stanche ma incapaci di spegnersi. Mi fermo in un parcheggio
vicino alla spiaggia, quello stesso dove anni fa guardavo le feste da lontano,
invidiando chi sembrava vivere davvero. Spengo il motore, e il silenzio mi
colpisce come un’onda. Poi, dalla macchina accanto, esplode un boato: un gruppo
di ragazzi, tamarri come lo ero io, con lo stereo a palla che spara un pezzo di
Gigi D’Agostino. La techno anni ’90 mi travolge, e per un istante sono di nuovo
lì, a 17 anni, con i jeans Rifle e il cuore che batte troppo forte. Scendo
dall’auto, una Peroni da 66 in mano – alcune cose non cambiano mai – e mi
appoggio al cofano. I ragazzi mi guardano, uno di loro alza la bottiglia in un
saluto silenzioso. Siamo fratelli, anche se loro non lo sanno. Indomiti tamarri
di una nuova generazione, con i loro sogni rumorosi e i loro alettoni cromati.
Mi chiedo se anche loro sognano una Bruna, una dea greca che profuma di estate
e di sesso, o se i loro desideri hanno un altro volto, un altro nome che li
tiene svegli la notte. Uno di loro, un ragazzo con una catenina d’oro che
brilla sotto le luci al neon del parcheggio, si avvicina. “Bella birra,” dice,
indicando la mia Peroni. “Ti va di fare un giro con noi? Abbiamo un po’ di roba
da sparare nello stereo.” Non so perché, ma accetto. Forse è il richiamo di
quelle sere di maggio, o forse è solo la voglia di sentire ancora quel boato,
quel subwoofer che pulsa come un cuore vivo.
Salgo sulla loro macchina, una Peugeot 205 truccata con un
alettone che sembra gridare ribellione. Il ragazzo con la catenina, che si
presenta come Luca, mette su Rosalita di Springsteen, e il sax di Clarence
Clemons mi colpisce come un’onda del mare. “Questa è roba vecchia, ma spacca,”
dice Luca, dando gas mentre gli altri ridono e cantano a squarciagola. Io
sorrido, perché non posso fare a meno di pensare a quanto somiglino a me e ai
miei amici di un tempo, con le nostre Marlboro Lights, i Gomgel nei capelli e i
sogni che ci scoppiavano dentro come fuochi d’artificio. La strada si snoda
lungo la costa, e la brezza salmastra mi accarezza il viso attraverso il
finestrino abbassato. Passiamo davanti alle giostre arrugginite, che ora
sembrano fantasmi di un luna park dimenticato, e per un momento vedo Bruna, o
almeno l’idea di lei, che mi sorride da lontano. Non è reale, lo so, ma la
musica rende tutto possibile. Rosalita cede il posto a L’Amour Toujours di Gigi
D’Agostino, e il contrasto tra le due canzoni mi fa ridere: è come se il
passato e il presente si fossero dati appuntamento qui, su questa strada che
non finisce mai. Arriviamo a un punto panoramico, dove il mare si stende
davanti a noi come un tappeto infinito. Luca spegne il motore, e per un momento
ci godiamo il silenzio, rotto solo dal rumore delle onde e dal frinire dei
grilli. “Sai,” dice uno degli altri ragazzi, un tipo con una felpa oversize e
un tatuaggio sul collo, “mio padre mi raccontava sempre di uno che conosceva,
un certo Vincenzo. Diceva che era una leggenda, uno che girava con
un’Autobianchi A112 e metteva musica che ti faceva venire voglia di scappare
via.” Mi blocco, il cuore che batte più forte. “Vincenzo di Luzzi?” chiedo,
quasi incredulo. Il ragazzo annuisce. “Sì, proprio lui. Lo conosci?” Non
rispondo subito. Mi limito a guardare il mare, pensando a Vincenzo, al suo
giubbotto di pelle nera, al suo orecchino, alla musica che mi ha fatto
scoprire. “Sì, lo conosco,” dico infine, con un sorriso amaro. “Mi ha cambiato
la vita.” I ragazzi non fanno domande, e io sono grato per il loro silenzio.
Metto una mano in tasca e tiro fuori una vecchia musicassetta che porto sempre
con me: Born to Run. La passo a Luca. “Metti questa,” gli dico. “Vedrai che non
te ne pentirai.” La voce di Springsteen riempie la notte, e mentre Thunder Road
esplode dagli altoparlanti, sento che l’estate non è mai finita davvero. La
Costa Tirrenica è ancora qui, con le sue promesse non mantenute e i suoi sogni
rumorosi. E io, con una Peroni in mano e un gruppo di tamarri accanto, sono
ancora quel ragazzo che voleva scappare, ma che ora sa che non si scappa mai
davvero: si corre, sì, ma sempre con una canzone nel cuore. È il segno di
un'estate che vorrei potesse non finire mai, come diceva la canzone.
Strada senza fine –
Seconda parte
La Costa Tirrenica non smette di cantare, e io non smetto di
ascoltarla. Dopo quella notte con Luca e i suoi amici, con Thunder Road che ci
ha tenuti sospesi tra il passato e un futuro che non sappiamo ancora scrivere,
qualcosa dentro di me è cambiato. Non è più solo nostalgia, non è più solo
rimpianto. È come se la musica di Bruce Springsteen, quella che Vincenzo mi
aveva fatto scoprire anni fa, mi avesse dato una mappa, una strada da seguire,
anche se non so dove mi porterà. Settembre andiamo, è tempo di cambiare: l’aria
sulla costa ha quel sapore dolceamaro che sa di fine estate. Sono di nuovo in
macchina, la mia Fiat Punto scassata che sembra reggere ancora per miracolo, e
sto tornando verso la diga di Tarsia. È diventato una specie di rituale, un
pellegrinaggio che faccio ogni volta che ho bisogno di ritrovarmi. Il cielo è
una tela di fuoco, con striature di rosso e oro che si riflettono sull’acqua, e
io ho una musicassetta pronta nel mangianastri: Darkness on the Edge of Town.
Non è un album che ascolto spesso – è troppo crudo, troppo pieno di verità che
fanno male – ma stasera sento che è quello giusto. Faccio partire Badlands, e
la voce di Springsteen mi colpisce come un pugno. “Lights out tonight, trouble
in the heartland,” canta, e io sento ogni parola come se fosse scritta per me.
È la storia di chi lotta, di chi non si arrende, di chi cerca una terra
promessa anche quando tutto sembra andare a rotoli. A 30 anni, con un lavoro
che mi soffoca e una vita che non somiglia a quella che sognavo, mi sento
esattamente così: un uomo ai margini, con un fuoco dentro che non si spegne
mai. Mentre guido lungo la strada costiera, con il mare che brilla alla mia
sinistra e le giostre arrugginite che si stagliano contro l’orizzonte, penso a
Vincenzo. La sua Autobianchi A112 blu, il suo giubbotto di pelle, il modo in
cui mi guardava mentre ascoltavo Jungleland per la prima volta. “Questa è
roba che ti fa vivere, Dariù,” mi aveva detto, e ora capisco cosa intendeva.
Springsteen non è solo musica: è una promessa, un patto che fai con te stesso
di non smettere mai di correre, anche quando la strada sembra finire. Metto su
Racing in the Street, una delle canzoni più malinconiche di Springsteen, e mi
perdo nei ricordi. Penso a Bruna, ai suoi capelli selvaggi e a quel profumo di
estate che mi faceva battere il cuore. Penso alle sere in cui guardavo le feste
sulla spiaggia da lontano, sognando una Lancia Delta che mi portasse via. Ma
soprattutto penso a Vincenzo, a come mi ha insegnato a sentire la musica, a
viverla come se fosse un motore che ti spinge avanti. La voce di Springsteen, e poi quel pianoforte, l'organo che sembra piangere, mi fa venire le lacrime agli occhi.
“Some guys they just give up living, and start dying little by little, piece by
piece,” canta, e io mi chiedo se sto diventando uno di quei tipi, o se ho
ancora la forza di correre. Arrivo alla diga di Tarsia e parcheggio vicino
all’acqua. Il silenzio della sera è rotto solo dal rumore della strada in
lontananza e dal ticchettio del motore che si raffredda. Scendo dall’auto, con
la musicassetta che ora passa a The Promised Land, e mi siedo su una roccia,
lasciando che la brezza della sera mi accarezzi il viso. “I believe in The Promised Land,” canta Springsteen, e io voglio crederci anch’io, anche solo per
stasera. È allora che la vedo: una figura che si avvicina, camminando lungo il
sentiero che costeggia la diga. È una donna, con i capelli scuri che le cadono
sulle spalle e un’aria che mi sembra di conoscere. Quando si avvicina, il mio
cuore salta un battito. È Bruna. Non la vedo da anni, ma è ancora lei, con
quegli occhi che sembravano contenere tutto il mare della Costa Tirrenica.
“Dario?” dice, con un sorriso che mi riporta indietro di un decennio. “Sei
proprio tu?” Ci sediamo insieme sulla roccia, e mentre The Promised Land sfuma
nel silenzio, parliamo. Mi racconta della sua vita, di come si sia trasferita
per un po’ a Roma ma sia tornata qui perché “la costa ti chiama sempre
indietro”. Io le racconto di me, del mio lavoro, dei miei sogni che non si sono
mai realizzati del tutto. E poi, inevitabilmente, parliamo di musica. “Ti
ricordi quella volta che ascoltavi Springsteen sulla spiaggia?” mi chiede,
ridendo. “Sembravi perso in un altro mondo.” Sorrido, perché me lo ricordo
eccome. Era Jungleland, e io immaginavo di scappare con lei, di vivere una vita
che fosse all’altezza delle canzoni di Springsteen. Bruna tira fuori una
piccola radio portatile dalla sua borsa e la accende. “Ho qualcosa che potrebbe
piacerti,” dice, e mette su Born to Run. La batteria esplode, e io sento di
nuovo quella scarica di adrenalina che mi aveva travolto a 17 anni. “Wendy, let
me in, I wanna be your friend,” canta Springsteen, e io guardo Bruna,
chiedendomi se sia troppo tardi per mantenere le promesse di quelle canzoni.
Lei mi prende la mano, e per un momento siamo di nuovo due ragazzi, con il
mondo davanti e la musica che ci spinge a correre. La notte si fa più scura, ma
la Costa Tirrenica non smette di brillare. Bruna e io decidiamo di fare un
ultimo giro in macchina, con Born to Run che ci accompagna lungo la strada. Non
so dove ci porterà questa notte, ma so che Springsteen aveva ragione: c’è una
terra promessa là fuori, e forse, con la musica giusta e la persona giusta
accanto, posso ancora raggiungerla.
++++ VENTO SOLE E SAX:
UN’ ESTATE SENZA FINE ++++
***** UNA STORIA DI
DARIO GRECO *****


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