Ascoltare l'autunno con Van Morrison, dieci anni dopo
Questo saggio è stato scritto per la prima volta durante l'autunno del 2015, precisamente dieci anni fa...
L’autunno non è semplicemente un passaggio meteorologico: è una condizione dello spirito, una sospensione tra la pienezza vitale e l’inizio del declino. È, come scriveva Ernst Jünger, la stagione in cui le forme acquistano maturità plastica, scolpite dal tempo. Se la primavera dipinge e l’estate incendia, l’autunno cesella e misura, imprime forma alla sostanza. In questa cornice Van Morrison ha trovato il suo habitat poetico più autentico: l’autunno come stato d’animo, come contemplazione e conservazione, come momento di ascolto interiore.
Nella lunga suite di Autumn Song, inserita in Hard Nose the Highway (1973), Van sembra voler cristallizzare non tanto un paesaggio quanto una condizione mentale. Qui il canto si fa impressionistico flusso di coscienza, non lontano dall’evocazione poetica di Wordsworth o dalle modulazioni meditative di Bill Evans. Stephen Holden, su Rolling Stone, definì quei dieci minuti una dimostrazione del dono naturale di Van per costruire momenti musicali basati sulla meditazione, in cui accumulo e ripetizione diventano strumenti di trascendenza. C’è in autunno quella “fertile tristezza” che non deprime ma rigenera. Kierkegaard la vedeva come la stagione migliore per osservare il cielo, Verlaine la trasformava in lunghi singhiozzi di violino, e Italo Calvino ci ricordava che la vera leggerezza è frutto di precisione, non di vaghezza. Morrison ne fa musica pastorale, canto bucolico che alterna malinconia e gaiezza. Autumn Song non è mai un blocco compatto di tristezza: è un pulviscolo di atomi emotivi, particelle minutissime di nostalgia e serenità, oscillanti tra ombra e luce.
Quando canta When the Leaves Come Falling Down (1999) o Golden Autumn Day, Van ribadisce la sua vocazione a legare il tempo naturale al tempo interiore. L’autunno diventa rito di passaggio, momento in cui l’individuo riconosce la caducità senza smarrire la gioia. È, come nei versi di Eliot in The Waste Land, il tempo del “mattino invernale che tiene in vita il ricordo dell’estate”.
Il respiro della natura e la voce dell’anima
La natura autunnale, con i campi rossastri, le foglie brune e i germogli serrati, rispecchia l’essere umano nel suo bisogno di introspezione. Thoreau nei suoi diari ricordava che l’urlo della tempesta o il fruscio delle foglie non sono rumori ma armonie essenziali. In questo senso Van Morrison non fa che tradurre in musica la stessa idea: la vita come ascolto dell’invisibile. È interessante notare come il suo canto autunnale si inscriva in una tradizione anglofona che lega musica e mistica. Astral Weeks (1968) e Veedon Fleece (1974) sono i due poli di questa tensione: il primo è immersione in una spiritualità visionaria, il secondo è ritorno alla terra, alle radici, al paesaggio irlandese come sacrario interiore. Autumn Song appartiene a questo ciclo, meno citata ma non meno essenziale, testimonianza di un 28enne che aveva già assimilato la lezione dei mistici e dei poeti romantici.
Ci vuole coraggio per cantare l’autunno quando si è giovani. Morrison lo fa con la testardaggine romantica che caratterizza tutta la sua carriera, lontano dai riflettori del pop internazionale, ostinatamente fedele a un’estetica di ricerca. È un coraggio simile a quello di John Schlesinger che in Far from the Madding Crowd portava in scena l’idea del crepuscolo come rifugio dall’invasività della folla. In fondo, ascoltare Van Morrison è sempre confrontarsi con una temperatura emotiva, una misura dell’anima. Non c’è altro strumento di valutazione. Lo aveva capito bene Lester Bangs, che su Astral Weeks scrisse parole definitive, e lo confermano ancora oggi le riletture di critici e musicologi che vedono in Morrison il custode di un misticismo laico. La sua musica non è mai mera forma, ma rito. In Morrison, l’autunno è la stagione della memoria e della conservazione, ma non di un archivio statico: piuttosto un deposito vitale, una forma di resistenza alla banalità. Lì si annida la forza di una musica che non teme la ripetizione perché nella ripetizione trova il senso. Come nel canto del tordo che si interrompe per lasciare spazio al silenzio, anche Autumn Song vive di intervalli, di pause, di sospensioni che sono esse stesse musica.
Così l’ascoltatore comprende che il senso non è solo nelle note ma negli spazi tra le note, non solo nelle parole ma nelle pause tra le parole. È qui che Van Morrison diventa davvero un cantore dell’autunno: nel dare forma a un vuoto, nel trasformare la malinconia in contemplazione, la caducità in permanenza.
Per concludere il discorso autunno e Van...
Autumn Song è più di un brano: è una filosofia dell’ascolto, una pratica di consapevolezza. Non ha nulla della spettacolarità della giovinezza rock, ma tutto della profondità di chi, a soli 28 anni, aveva già imparato a cantare il crepuscolo.
Per questo Van Morrison resta uno dei più grandi interpreti dell’autunno, non come stagione climatica, ma come stagione dell’anima. Un po’ come Melville davanti al suo camino, Van accoglie noi ascoltatori nella stanza retrostante della vita, dove le parole contano meno del fuoco che arde. E lì, tra foglie che cadono e pensieri che si accendono, possiamo finalmente comprendere che l’autunno non è un addio ma un inizio: il tempo in cui la musica diventa rifugio, memoria, resistenza.
P.S:
Lo scorso giugno il Nostro Van ha rilasciato un nuovo splendido album, le cui canzoni, mature e malinconiche celebrano ancora una volta la vita e l'autunno, per certi versi. Mi sto riferendo naturalmente al magnifico Remembering Now. Ma questa è un'altra storia, che merita, nel tempo un'altra analisi e un altro approfondimento in termini di saggio musicale, testuale e filosofico.
Scritto da Dario Greco nel 2015, editato da ChatGPT nel 2025
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