Greetings From Amantea


GREETINGS FROM AMANTEA

Amantea, primavera 1997. Luca, diciotto anni e l’aria di chi ha prenotato un trip per la Route 66 ma gli hanno rifilato un biglietto per il pullman Amantea-Longobardi, ciondolava per i vicoli di Via Baldacchini come un poeta che ha dimenticato la penna in un’altra vita. Il suo walkman, un Philips così malandato che sembrava tossire anziché suonare, era l’unico motivo per cui non aveva ancora mollato tutto per fare l’eremita sul Monte Cocuzzo. Il ciuffo ribelle gli cadeva sugli occhi come una tenda bucata, e in tasca aveva una copia di Sulla strada così consumata che sembrava usata per avvolgere le sarde al mercato di Via Vittorio Emanuele.

Il liceo scientifico Galileo Galilei era un girone dantesco: il professor Russo, con quegli occhialetti da usciere del demonio e un’ossessione maniacale per le equazioni differenziali, lo massacrava con interrogazioni che Luca affrontava con la grinta di un pesce spiaggiato. “Guagliò, se studiassi quanto leggi quei romanzetti tuoi…” lo sgridava Russo, agitando un gesso come fosse una bacchetta da direttore d’orchestra. Luca rispondeva con un sogghigno storto: “Prof, Kerouac non ha mai calcolato una derivata, eppure ha scritto poesie che fanno tremare il cuore.” Non gli piaceva niente, a lui: né il calcetto al campetto dietro la chiesa di San Bernardino, dove i suoi amici si scannavano per un rigore come se fosse la finale di Coppa dei Campioni, né le serate al Bar Centrale, con le solite scommesse su chi aveva il Gilera Runner più truccato o su quella nuova commessa del negozio Sogno d’Estate su Via Margherita che “faceva girare la testa pure al prete di San Biagio”. Solo Jack Kerouac, con le sue parole che sapevano di benzina, polvere e tramonti rubati, gli dava una scusa per non buttarsi dal molo di Campora San Giovanni con un blocco di cemento legato ai piedi.

Da un po’ di tempo Luca aveva preso a scarabocchiare. Non poesie da ragazzine sciocche, sia chiaro, ma pensieri buttati su scontrini della pizzeria Da Peppino o sulle bustine di zucchero del Bar Sport. “Amantea è una rete da pesca che ti strangola, ma se corri abbastanza forte, magari la Statale 18 ti porta fino a Key West, fino ad Asbury Park!"  Colpa di Jack Kerouac, certo, ma anche di Bruce Springsteen, che gli aveva fatto capire che una storia non doveva essere un capolavoro, bastava che ti facesse sentire il sangue scorrere dentro. Di notte, nella sua cameretta con il soffitto macchiato di muffa e un poster di Trainspotting appiccicato con lo scotch, metteva su Thunder Road e si vedeva al volante di una convertibile americana anni Cinquanta, anche se l’unico mezzo che aveva guidato era il vespone smarmittato di suo cugino Mimmo, con il freno che funzionava una volta su tre, ma solo quando era di genio. 

Come era iniziata questa tardiva mania per il Boss? Un pomeriggio, mentre frugava in soffitta di casa si imbatté in una musicassetta senza etichetta. Solo una scritta, a penna blu, leggermente sbavata: BRUCE SPRINGSTEEN. La calligrafia sembrava quella di suo zio Salvatore, ma non ne era così sicuro. Del resto la curiosità non si basa su un preciso assioma cartesiano, per fortuna di chi non comprende le leggi matetiche e scientifiche, ma risponde presente quando si tratta di questioni di sentimento, di impeto, di follia! Perciò infilò ugualmente quella cassetta nel suo walkman Philips e premette play. Qualcosa da lì a breve sarebbe cambiata dentro di sé, in maniera definitiva, senza alcuna possibilità di fare dietrofront. Le prime note erano scarne, nude, e poi la voce: graffiata, stanca, profonda. Era Nebraska. Non sapeva nulla di quell’album, né di Bruce, ma quelle canzoni parlavano di vite alla deriva, di periferie dimenticate, di sogni infranti – tutto quello che lui provava e non riusciva a dire. C'era qualcosa di crudo e poetico in quella musica, una verità che lo colpì dritto allo stomaco. Poi, per caso, si imbatté in un’altra canzone. Stavolta alla radio. Si intitolava Secret Garden. La voce era sempre quella, anche se la musica possedeva un colore diverso: più intimo e allo stesso tempo contemporaneo, certamente molto malinconico, romantico. Iniziò a cercare tutto di Bruce Springsteen, senza un ordine preciso. Si ritrovò ad ascoltare Born to Run e The River, passò da Lucky Town a Darkness on the Edge of Town, e poi giù giù, fino a The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle. Una macedonia, una confusione felice, una rivelazione continua. Ogni canzone era un luogo, un frammento, una possibilità. Aveva scoperto un mondo. E in quel mondo, cominciava a vedere riflessa anche la sua vita. Pensava che se mai Bruce avesse pubblicato un disco elettronico, magari con 4 o 5 pezzi in stile anni novanta, ci avrebbe messo dentro anche lui: il suo volto smarrito, il suo desiderio di fuga, il suo bisogno disperato di senso. Quel ragazzo che odiava la scuola e si sentiva fuori posto in ogni aula, ora trovava compagnia in voci e suoni venuti da lontano. Le parole di Kerouac continuavano a vivere dentro di lui, ma ora avevano una colonna sonora.

E così in un pomeriggio di fine aprile, mentre ciondolava sul lungomare di Coreca – con le barche dei pescatori che dondolavano come vecchi ubriachi e il chiosco di don Pasquale chiuso perché “i turisti so’ pigri fino a giugno” – Luca trovò un volantino mezzo stracciato appiccicato al palo della luce davanti al negozio di souvenir Stella Marina. Si leggeva a fatica, ma era una bomba: “Concerto tributo a Bruce Springsteen – Cosenza, 25 aprile, Circolo Arci La Casa del Popolo.” Luca quasi si strozzò con la Coca-Cola che stava bevendo. Un concerto? In Calabria? Non era il Boss in carne e ossa, ma per un guaglione che al massimo aveva sentito I Tammurrielli massacrare Volare alla festa della Madonna del Carmine, era come se gli alieni fossero atterrati d'improvviso a Piazza Commercio. Solo che c’era un problema grosso come il campanile di Sant’Elia: Cosenza era lontana, i soldi in tasca erano meno di quelli che servivano per un cono alla Sirenetta, e sua madre, donna Teresa, l’avrebbe incatenato al negozio di alimentari su Via Margherita con un “I pelati non si sistemano da soli, Luca!”

Ma Luca non era tipo da lasciarsi fregare dal destino – non quando c’erano di mezzo i sentimenti che provava nei confronti del suo Boss. Si presentò al Bar Sport, un buco con le sedie di plastica scolorite, un jukebox che vomitava Rosanna dei Toto e un odore di caffè bruciato che ti seguiva fino a casa. Lì regnava don Ciccio, un omone con un cappellino del Cosenza Calcio e la voce di chi ha cantato ’O sole mio per troppo tempo e per troppi sposalizi. Don Ciccio era il boss dei trasporti locali: organizzava pullman per le partite al San Vito, per la sagra del cinghiale a Fiumefreddo, persino per i pellegrinaggi a San Francesco di Paola. “Don Ciccio, mi serve un passaggio per Cosenza il 25,” sparò Luca, con l’aria di chi chiede un favore a un padrino mafioso. Don Ciccio lo squadrò da sopra la Gazzetta dello Sport, la sigaretta che gli penzolava come un lampione rotto. “E che, vai a sentire quel tizio che urla di fabbriche e disgrazie? Ma statt’ accà, vai a rimorchiare al Lido La Perla!” Luca non batté ciglio. “È una missione, don Ciccio. Come quando porti i tifosi a vedere il Cosenza contro la Reggina. Ma più… spirituale.” Don Ciccio scoppiò in una risata che fece tremare le bottiglie di Amaro Lucano sul bancone. “Guagliù, tu sei pazzo tale a quale a tuo nonno! Va bene, ti porto, ma pulisci il bar per una settimana. E guai a te se lo dici a donna Teresa, che quella come minimo mi squarta se poco poco lo viene a sapere!”

La sera del concerto, Luca era un disastro ambulante: sudava come se fosse Ferragosto, si era messo la sua T-shirt Born to Run – comprata per un tozzo di pane a un banco di roba usata vicino alla stazione di Paola – e nello zaino aveva infilato Sulla strada e una lattina of Crodino sgraffignata dal negozio di sua madre. Il pullman di don Ciccio, un Fiat 306 che sembrava uscito da un film di Totò, lo scaricò davanti al Circolo Arci La Casa del Popolo, un tugurio con le pareti scrostate, un’insegna al neon che diceva “Pop” perché il resto era bruciato, e un odore di birra Moretti e sogni andati a male. Dentro, una ventina di tizi con giacche di jeans e capelli unti si agitavano come se fosse il ’68. La band, I Lupi della Sila, non era esattamente gli E Street, ma ci dava dentro: il cantante, un cosentino con una camicia a quadri e la voce di chi ha mangiato ghiaia per colazione, attaccò con Badlands, e Luca perse ogni freno. Saltava, cantava a squarciagola, si sbracciava come un naufrago che chiede aiuto, dimenticandosi di Amantea, del professor Russo e delle cassette di pomodori che lo aspettavano al negozio.

A metà concerto, il cantante si asciugò la fronte con un fazzoletto e biascicò al microfono: “Questa è per chi cerca qualcosa e non sa manco dove trovarlo.” Poi partì The Ghost of Tom Joad, e Luca rimase impalato, come se gli avessero staccato la spina. Era la sua canzone, quella che gli aveva rivoltato la testa come un calzino. Chiuse gli occhi e si immaginò su una statale americana, anche se l’unica statale che conosceva era quella per Longobardi, con le buche che ti facevano rimpiangere di essere nato. Quando li riaprì, aveva gli occhi lucidi – “Vabbè, è il fumo,” si giustificò, anche se nessuno lo stava guardando.

Sul pullman del ritorno, con don Ciccio che massacrava Calabrisella mia al volante e il motore che tossiva come un mulo moribondo, Luca tirò fuori un volantino della pizzeria Da Peppino e ci scribacchiò sopra: “Non so dove sto andando, ma stasera ho fatto un pezzo di strada.” Non era Dante, ma era suo. Mentre le luci di Amantea spuntavano oltre il finestrino, con il profilo del Castello Normanno che sembrava un vecchio ubriaco addormentato, Luca sogghignò. Quella cassetta trovata per caso non gli aveva solo fatto scoprire Springsteen: gli aveva dato una scusa per sognare in grande, anche se “grande” per ora significava non farsi beccare da sua madre mentre sgattaiolava in casa alle due di notte. “Chissà,” pensò, “magari un giorno scrivo una canzone. O almeno una storia. Tanto, peggio di Human Touch non può venire.”

GREETINGS FROM AMANTEA - SECONDA PARTE

Il pullman di don Ciccio, un relitto che sembrava uscito da un film di Totò, arrancava sulla Statale 18 con un lamento che copriva persino Calabrisella mia cantata a squarciagola dal conducente. Luca, seduto in fondo, con la T-shirt Born to Run ormai appiccicata di sudore e lo scontrino della pizzeria Da Peppino stretto in mano, guardava le luci di Amantea avvicinarsi come stelle di un cielo che non prometteva niente di eccezionale. Era il 26 aprile 1997, e il concerto a Cosenza gli aveva lasciato dentro un fuoco che non sapeva se spegnere o alimentare. La melodia di The Ghost of Tom Joad gli girava ancora in testa, come il sibilo del frigo del negozio di sua madre, quando chiudevano tardi dopo aver sistemato la merce.  “Non so dove porta la strada, ma stasera ci ho corso sopra,” aveva scritto sullo scontrino. Ora, però, la strada era quella solita: Via Margherita, il liceo Galileo Galilei, il professor Russo con le sue equazioni e donna Teresa che lo aspettava con un “Luca, i pelati non si sistemano da soli!” Non era esattamente la tanto agognato costa del Jersey.

Tornato a casa, Luca si buttò sul letto senza nemmeno togliersi le scarpe. Il soffitto della sua cameretta, con quelle macchie di muffa che sembravano una mappa di un tesoro mai trovato, lo fissava come un giudice. Il walkman era morto, batterie stecchite, e la cassetta di Nebraska giaceva sul comodino come un relitto di guerra. Ma quella notte non dormì. Prese un quaderno, uno di quelli che usava per i compiti di matematica prima di abbandonarli, e iniziò a scrivere. Non erano poesie, non proprio, ma frammenti di pensieri che gli uscivano come onde sulla spiaggia di Campora San Giovanni. “Questa città è una rete da pesca, ma io sono un pesce che vuole saltare fuori,” scrisse. Poi: “Springsteen non canta solo per gli americani, canta per chi sente il cuore bucato come un copertone vecchio.” Non era Kerouac, ma era suo, e tanto bastava.

Passò l’estate del ’97, e Luca si ritrovò a fare i conti con un ultimatum. Donna Teresa, con la pazienza di chi ha cresciuto un figlio e un negozio di alimentari da sola, gli aveva dato una scadenza: “O ti iscrivi all’università, o ti metti a lavorare qui con me. Non puoi passare la vita a scribacchiare e ascoltare quel matto che urla di fabbriche e morti di fame!” Luca, che di fabbriche non ne aveva mai viste ma si sentiva comunque un operaio di sogni, non sapeva cosa rispondere. L’università a Cosenza gli sembrava un altro liceo, solo più grande e con meno interrogazioni a sorpresa. Il negozio di sua madre, con le cassette di pomodori e i clienti che si lamentavano del prezzo delle acciughe, era una condanna a vita. Ma c’era una terza via, una che Luca vedeva ogni volta che guardava la Statale 18, quella striscia d’asfalto che tagliava la costa come una promessa non mantenuta. “E se me ne andassi?” pensava, mentre aiutava suo cugino Mimmo a riparare la Vespa scassata nel cortile di casa. Mimmo, con una chiave inglese in mano e una sigaretta spenta in bocca, lo guardava come se avesse detto di voler aprire una gelateria artigianale, ma su Marte. “E dove vai, guagliò? A Roma? A Milano? Co’ quali sordi? E poi, chi te lo fa fare, che qua c’hai il mare, la pizza di Peppino e la commessa di Sogno d’Estate che ti guarda sempre?”

Ma Luca non pensava a Roma o Milano. Pensava a Bologna. Non sapeva bene perché, ma Bologna gli sembrava il posto giusto. Forse per le storie che aveva sentito al Bar Sport, di studenti che suonavano nei vicoli e poeti che leggevano versi nei bar. Forse perché aveva letto da qualche parte che lì c’era una radio libera, Radio Alice, che anni prima mandava in onda roba che avrebbe fatto impazzire don Ciccio. O forse perché Bologna era lontana abbastanza da Amantea da sembrare un altro mondo, ma non così lontana da non poterci tornare per la festa della Madonna del Carmine. “Bologna,” mormorò una sera, mentre guardava il mare da Campora San Giovanni, con le barche dei pescatori che dondolavano come vecchi ubriachi e il chiosco di don Pasquale chiuso per fine stagione. Il mare del Tirreno, con quel blu che di giorno sembrava un quadro e di notte un segreto, non gli diede risposte, ma gli fece venire voglia di provarci.

Il piano, se così si poteva chiamare, era semplice: mettere da parte i soldi lavorando al negozio di sua madre fino a settembre, vendere il walkman Philips (anche se era come vendere un pezzo di cuore), e prendere un Intercity per Bologna. Non aveva idea di cosa avrebbe fatto una volta lì – cercare un lavoro, magari in un bar, o provare a entrare in qualche circolo dove suonavano cover del Boss. Ma l’idea di muoversi, di correre come cantava Springsteen, gli bastava. A scuola, il professor Russo lo aveva preso in disparte l’ultimo giorno di lezione. “Luca, tu sei un disastro con i numeri, ma hai qualcosa dentro. Non sprecarlo.” Luca aveva ghignato, pensando che Russo sembrava quasi umano senza il gesso in mano. “Non si preoccupi, prof. Non spreco niente. Al massimo, rompo tutto.” Russo aveva scosso la testa, ma c’era un mezzo sorriso sotto quegli occhialetti da contabile del diavolo.

A fine agosto, Luca aveva messo insieme abbastanza soldi per il biglietto e un mese di affitto in una stanza che, a giudicare dalle inserzioni sul Corriere del Mezzogiorno, sembrava più un armadio che un appartamento. Donna Teresa, quando lo seppe, fece una scenata che neanche la Madonna del Carmine avrebbe potuto calmare. “Bologna? Ma che sei matto? E se ti succede qualcosa? E chi mi aiuta coi pelati?” Luca, per la prima volta, non rispose con una battuta. La abbracciò, cosa che non faceva da anni, e le disse: “Mammà, devo provare. Sennò resto incastrato come papà nelle reti da pesca.” Suo padre, che passava più tempo in mare che in casa, non disse niente, ma gli lasciò una pacca sulla spalla che valeva più di mille parole.

La mattina della partenza, il 15 settembre 1997, Luca si presentò alla stazione di Paola con uno zaino, una copia di Sulla strada ancora più malconcia, e una musicassetta nuova di Darkness on the Edge of Town, comprata al mercato di Via Vittorio Emanuele con gli ultimi spicci. Don Ciccio, che lo aveva accompagnato con il suo Fiat Panda ancora più scassato del pullman, gli diede un consiglio che sembrava uscito da un film di camorra: “Guagliò, Bologna è piena di furbi. Tieni gli occhi aperti e il cuore chiuso.” Luca rise. “Don Ciccio, il mio cuore è aperto come il Lido La Perla in agosto. Ma tranquillo, non mi fregano.” Salì sull’Intercity, si infilò le cuffie (un paio scrause, comprate usate), e mise su Badlands. Mentre il treno lasciava la Calabria, con il Tirreno che scintillava come una promessa, Luca tirò fuori un altro scontrino – stavolta del Bar Centrale – e ci scrisse: “La strada non finisce mai, ma ogni tanto devi cambiare direzione.”

Arrivato a Bologna, trovò la città più viva di quanto avesse immaginato. I portici di Via Zamboni gli sembravano un labirinto dove ogni angolo nascondeva una storia. Trovò lavoro come lavapiatti in un’osteria vicino a Piazza Verdi, un posto che puzzava di ragù e suonava Guccini a tutto volume. Di sera, girava per i circoli Arci, con la sua T-shirt Born to Run che ormai era più buchi che tessuto. Una notte, in un locale chiamato Il Cortile, vide un tizio con una chitarra che massacrava Thunder Road in un modo che avrebbe fatto piangere Springsteen, ma a Luca non importava. Si avvicinò e disse: “La prossima la suono io.” Non aveva una chitarra, ma il tizio, un bolognese con una barba da filosofo, gliela prestò. Luca attaccò con The River, sbagliando metà degli accordi, ma cantando con una voce che sembrava venire da un vicolo di Amantea. La gente applaudì, più per pietà che per entusiasmo, ma a lui non fregava niente. Era la sua prima volta su un palco, e si sentiva come il Boss al Stone Pony.

Da quella sera, Luca iniziò a farsi vedere nei locali. Non era un musicista, non proprio, ma aveva qualcosa – un fuoco, un’anima, una storia – che faceva girare la testa a chi lo ascoltava. Scriveva ancora, non più su scontrini ma su un quaderno vero, e ogni tanto leggeva i suoi versi in un circolo di poeti scalcinati che si riunivano dietro Piazza Maggiore. “Amantea mi ha insegnato a sognare, Bologna a provarci,” scrisse una volta. Non era ancora arrivato in America, e forse non ci sarebbe mai arrivato, ma la Statale 18 lo aveva portato abbastanza lontano. E mentre cantava Born to Run in un vicolo bolognese, con una chitarra presa in prestito e un pubblico di studenti ubriachi, Luca sorrise. “Chissà,” pensò, “magari un giorno scrivo una canzone che arriva fino al Tirreno.”

GREETINGS FROM AMANTEA - TERZA PARTE

L’estate del 1998 ad Amantea profumava di salsedine, pomodori secchi e asfalto caldo che si appiccicava alle suole. Luca scese dal treno alla stazione di Paola con uno zaino più pesante di quando era partito e una T-shirt Darkness on the Edge of Town ormai sbiadita come una cartolina lasciata al sole. Era il 10 luglio, e il Tirreno scintillava oltre i binari, un blu che sembrava chiamarlo per nome. Bologna lo aveva masticato per un anno intero – i portici umidi di Via Zamboni, i turni da lavapiatti all’osteria Da Giorgio, le serate a strimpellare The River in localacci dove il pubblico era più ubriaco di lui – ma ora era tornato. Non per sempre, si diceva, solo per l’estate. Eppure, quando il pullman di don Ciccio lo lasciò in Via Margherita, con quel clacson che sembrava un lamento di capra, Luca sentì qualcosa stringergli il petto. Casa. Non sapeva se fosse una rete da pesca o un porto sicuro.

Donna Teresa lo accolse con un abbraccio e un “Ma che sei diventato, un poeta di città?” mentre gli ficcava in mano un piatto di fusilli al sugo. Il negozio di alimentari era sempre lo stesso: cassette di melanzane ammaccate, il frigo che ronzava come un trattore e i clienti che chiedevano lo sconto sulle acciughe. Ma Luca era diverso. Non tanto fuori – i jeans larghi e gli anfibi erano gli stessi – quanto dentro. Bologna gli aveva dato un palco, anche se era solo un angolo di un circolo Arci, e un quaderno pieno di versi che non mostrava a nessuno. “Scrivo per non scoppiare,” aveva detto una volta a un tizio con la barba che sembrava uscito da un film di Pasolini, dopo una serata al Cortile. Ma ad Amantea non c’erano palchi, solo il lungomare dove i vecchi giocavano a carte e i motorini truccati rombavano fino a mezzanotte.

La prima settimana fu un tuffo nel passato. Luca ritrovò Mimmo, suo cugino, che ora sfoggiava una Vespa nuova – “Rubata al destino,” ghignava – e lo trascinò al Lido La Perla per una birra. La spiaggia di Campora San Giovanni era una cartolina sgualcita: il chiosco di don Pasquale vendeva granite con lo stesso sciroppo annacquato, e le onde del Tirreno lambivano la riva come se niente fosse cambiato. Ma Luca, seduto sulla sabbia con una Peroni tiepida, si sentiva un estraneo. “Allora, guagliò, Bologna com’è? Si mangia meglio là o qua?” chiese Mimmo, con la sigaretta spenta in bocca come un trofeo. Luca rise. “Là mangiano tortellini, ma il pesce spada di Peppino non lo batte nessuno.” Mimmo annuì, soddisfatto, ma poi aggiunse: “E che fai, resti là per sempre? Che qua c’è bisogno di te, lo sai.” Luca non rispose. Guardò il mare, che rifletteva un tramonto rosso come il sugo di sua madre, e pensò che il bisogno di cui parlava Mimmo era una catena, non un abbraccio.

Le giornate scorrevano lente, come le barche dei pescatori che tornavano all’alba. Luca aiutava in negozio, sistemando i pelati con la stessa svogliatezza di sempre, ma ogni tanto si fermava a scrivere. Non più su scontrini, ma su un quaderno con la copertina nera, comprato in una libreria di Bologna che puzzava di carta vecchia. “Il Tirreno non parla, ma ascolta,” scrisse una sera, seduto sulla scogliera di Coreca, con le luci di Amantea che sembravano un presepe fuori stagione. I suoi versi erano frammenti di vita: l’odore di ragù nell’osteria, il freddo sotto i portici, ma anche il suono delle onde e il ricordo di suo padre che riparava le reti senza dire una parola. Non erano poesie da Premio Strega, ma erano veri, e per Luca questo bastava.

Una sera, al Bar Centrale, sentì parlare di un concerto. Non un evento grosso come quello di Cosenza l’anno prima, ma una cosa piccola, organizzata da un collettivo di ragazzi che si facevano chiamare I Figli del Sud. Suonavano cover in un locale sulla spiaggia, un posto chiamato La Sirena, che era poco più di una baracca con un palco di fortuna. “Ci serve uno che canti qualcosa di diverso,” disse un tizio con una chitarra scordata, dopo averlo riconosciuto come “quello che era andato a Bologna”. Luca ci pensò su. Non aveva una chitarra, e la sua voce era più adatta ai vicoli che a un microfono, ma l’idea di cantare davanti al mare lo prese come una folata di maestrale. “Ci sto,” disse, senza sapere bene perché.

La sera del concerto, La Sirena era piena come un autobus all’ora di punta. C’era Mimmo, che fischiava come se fosse allo stadio, donna Teresa con un’espressione a metà tra orgoglio e terrore, e pure la commessa di Sogno d’Estate, che Luca evitò di guardare per non arrossire. I Figli del Sud aprirono con una versione reggae di Guccini, poi toccò a lui. Prese in prestito una chitarra, una Yamaha che sembrava aver visto più guerre di un film di Rambo, e si piazzò sotto una lampadina che dondolava come una boa. “Questa è per chi sente la strada dentro,” disse, e attaccò con Badlands. Non era Springsteen, e il pubblico non era il Madison Square Garden, ma mentre cantava – con la voce che graffiava come la salsedine – Luca sentì il Tirreno rispondere. Le onde si mescolavano agli accordi sbagliati, e per un momento Amantea non gli sembrò più una rete, ma un punto di partenza.

Dopo il concerto, mentre i ragazzi smontavano il palco e don Pasquale serviva granite a credito, Luca si sedette sulla spiaggia con sua madre. Donna Teresa, che non era tipo da smancerie, gli mise una mano sulla spalla. “Sei sempre stato un guaio, ma stasera mi hai fatto paura. Cantavi come uno che non torna più.” Luca sorrise, con il quaderno nero stretto in mano. “Mammà, torno sempre. Ma devo correre, sennò mi perdo.” Lei non disse niente, ma il modo in cui guardò il mare era una risposta.

L’estate finì, e Luca si preparò a tornare a Bologna. Aveva messo da parte qualche lira cantando a La Sirena e leggendo versi in un paio di serate organizzate da un professore universitario in vacanza, un tipo strano che parlava di poesia come se fosse una religione. Sul treno, mentre la Calabria spariva dietro il finestrino, Luca aprì il quaderno e scrisse: “Amantea non è una città, è una canzone che non smette mai di suonare. E io la canto, ovunque vada.” Mise su Thunder Road con un walkman nuovo, comprato con i soldi del concerto, e chiuse gli occhi. La strada era ancora lunga, ma il Tirreno gli aveva insegnato una cosa: anche quando corri, porti sempre un pezzo di casa con te.

GREETINGS FROM AMANTEA - QUARTA PARTE

L’autunno del 1998 a Bologna era un pugno nello stomaco: pioggia che tagliava i portici come lame, il freddo che si infilava sotto la giacca di pelle di Luca, e le luci di Via Zamboni che brillavano come un miraggio, promettendo tutto e niente. Era tornato da Amantea da un mese, con il sapore del Tirreno ancora sulla lingua e il ricordo del concerto a La Sirena che gli bruciava dentro. Cantare sulla spiaggia, con le onde che rispondevano ai suoi accordi sbagliati, era stato un fuoco che non si spegneva. Ma Bologna non era Amantea, e qui il mare non c’era a salvarlo. Qui c’erano solo vicoli, sogni e una città che ti abbracciava per poi lasciarti cadere.

Luca viveva in un buco vicino a Piazza Verdi, una stanza che puzzava di muffa e sigarette, condivisa con Davide, uno studente di filosofia che cantava Guccini a squarciagola nel cuore della notte. “Calabrese, sembri un lupo che non trova la tana,” gli aveva detto Davide una sera, passandogli una Moretti tiepida. Luca aveva ghignato, ma dentro sentiva il morso della verità. Scappava da Amantea – dalla “rete da pesca” di Via Margherita, dai pelati di sua madre, dal futuro che lo aspettava come una condanna – ma a Bologna si sentiva un naufrago, con una T-shirt Darkness on the Edge of Town ormai a brandelli e un walkman che gracchiava come un corvo morente.

Il lavoro all’osteria Da Giorgio era una guerra: piatti incrostati di ragù, turni infiniti, e un capo che urlava “Guagliò, muovi ‘ste mani!” mentre il sudore gli colava sulla fronte. Ma di sera, Bologna si accendeva, e Luca trovava rifugio al Cortile, un circolo Arci nascosto in un vicolo dietro Piazza Maggiore. Era un antro di fumo e vino da due lire, dove studenti con i capelli viola, poeti con gli occhiali rotti e musicisti scalcinati si ritrovavano per urlare al mondo i loro sogni. Una sera, un tizio con una maglietta dei Nirvana gli passò una chitarra Fender con le corde mezze morte. “Tocca a te, calabrese,” disse, con un ghigno che puzzava di birra. Luca la prese, con il cuore che gli martellava nel petto come un motore truccato. Attaccò The River, e mentre cantava – la voce che graffiava come salsedine, gli accordi che inciampavano ma non cadevano – sentì il locale tremare. Non era solo musica: era un grido, un pezzo della sua anima che si strappava per farsi sentire. Quando finì, il silenzio durò un istante, poi un applauso esplose come un’onda. Una ragazza con un piercing al naso gli urlò: “Hai il blues, ragazzo!” Luca, con il sudore che gli bruciava gli occhi, sorrise. Forse era vero.

Quella notte gli cambiò tutto. Il Cortile diventò il suo palco, e presto iniziò a esibirsi ogni settimana, alternando cover a versi suoi, letti con la chitarra che gemeva in sottofondo. “Il Tirreno mi ha cresciuto, ma Bologna mi ha dato un coltello per tagliare le reti,” scrisse su un tovagliolo, con le mani che tremavano dall’adrenalina. I suoi testi erano schegge di vita: il mare che lo chiamava, sua madre che sistemava pelati con le mani screpolate, suo padre che non parlava mai ma lo guardava come se sapesse tutto. La gente ascoltava, e anche se non sempre capiva, sentiva. “Hai un fuoco dentro, calabrese,” gli disse un poeta con la barba lunga, passandogli un bicchiere di Sangiovese. Luca lo bevve in un sorso, sentendo il vino bruciargli la gola come il desiderio di farcela.

Ma Bologna non era solo applausi e vino. Era anche un pugno in faccia: bollette che non poteva pagare, il freddo che gli mordeva le ossa, e una solitudine che lo svegliava di notte, con il cuore che batteva come se stesse per esplodere. Una sera, tornando a casa sotto una pioggia che sembrava volerlo annegare, trovò una lettera nella cassetta della posta. Era di Maria, la ragazza di Amantea che gli aveva sfiorato la mano sulla spiaggia. “Caro Luca,” scriveva, con una calligrafia che tremava come un’onda, “qui il mare è silenzioso senza di te. Ho sentito che canti a Bologna, e sono felice. Ma ho paura che ti perderai là fuori. Torna, almeno per una granita.” In fondo, un cuore e un’onda disegnati con l’inchiostro blu. Luca lesse la lettera con le mani che tremavano, e per un momento il freddo di Bologna sparì, sostituito dal calore del Tirreno. Ma poi la realtà lo colpì: era a mille chilometri da casa, con pochi spicci in tasca e un sogno che poteva spezzarsi da un momento all’altro.

Quella lettera lo spinse al limite. Sentiva il peso di Amantea – sua madre, Maria, il mare – ma anche la fame di Bologna, che gli stava dando una voce che non sapeva di avere. Decise di scrivere una canzone, la sua prima vera canzone. La chiamò Salsedine e Asfalto, e ci mise dentro tutto: il rumore delle onde, l’odore di pelati, i portici umidi, il sogno di correre senza fermarsi mai. La provò per giorni, chiuso nella sua stanza, con Davide che lo ascoltava dalla porta socchiusa, annuendo in silenzio. “È una bomba, calabrese,” gli disse alla fine, con un sorriso che sembrava un’approvazione.

La sera del debutto arrivò come un temporale. Il Cortile era pieno, con la pioggia che batteva sul tetto e un pubblico di studenti infreddoliti ma affamati di qualcosa di vero. Luca salì sul palco – un’asse di legno che scricchiolava come un lamento – con la chitarra in mano e il cuore in gola. “Questa è per chi viene da lontano,” disse, con la voce che tremava ma non cedeva. E poi cantò Salsedine e Asfalto. Ogni strofa era un pugno, ogni nota un grido: cantava del mare che lo aveva cresciuto, della città che lo stava spezzando, di un ragazzo che correva tra due mondi senza sapere dove fermarsi. La sua voce, sporca come un vicolo di Amantea, riempì il locale, e quando finì, il silenzio fu assordante. Poi il Cortile esplose: applausi, urla, bicchieri alzati. Una ragazza con i capelli viola pianse, un poeta gridò “Viva la Calabria!”, e Davide, in fondo, alzò un pugno al cielo.

Luca scese dal palco con le gambe che tremavano, ma per la prima volta si sentiva vivo, davvero vivo. Davide gli corse incontro, gli occhi lucidi. “Hai spaccato, calabrese. Hai spaccato tutto.” Ma Luca non riusciva a parlare. Si sedette su una sedia, con il tovagliolo in mano, e scrisse un ultimo verso: “La strada non finisce, ma a volte ti lascia cantare.” Più tardi, sotto i portici di Via Zamboni, con la pioggia che gli bagnava il viso, mise su Thunder Road con il walkman. Le note gli riempirono il cuore, e mentre camminava verso casa, con le luci di Bologna che brillavano come stelle in un presepe, seppe una cosa: non era più solo un ragazzo di Amantea. Era un poeta, un lupo, un fuoco che non si sarebbe spento. E il Tirreno, anche da lontano, lo stava ancora ascoltando.

GREETINGS FROM AMANTEA - QUINTA PARTE

Amantea, estate 1986. Luca aveva otto anni, le ginocchia sbucciate e una maglietta di Topolino ormai scolorita, comprata da sua madre, donna Teresa, al mercato di Via Vittorio Emanuele per due lire. Il sole bruciava la spiaggia di Campora San Giovanni, e il Tirreno era un colosso vivo, un gigante che respirava con onde che si infrangevano sulla riva come un battito cardiaco, ora lento e ipnotico, ora furioso e selvaggio. Quell’estate, il mare era un cantastorie, un narratore di tempeste, promesse e misteri, con la sua superficie che scintillava come uno specchio al mattino e si trasformava in un vortice di schiuma al tramonto, quando il vento si alzava da sud. Luca, con un secchiello in mano e i piedi affondati nella sabbia, sentiva il Tirreno parlare, anche se non capiva ancora tutte le sue storie. Ma dentro di lui, già allora, c’era un mare in tempesta, un groviglio di emozioni che non trovavano parole, e la musica – la musica di suo padre Antonio e di suo zio Salvatore – era l’unica cosa che lo teneva a galla.

Antonio era un pescatore, un uomo di silenzi, con le mani callose che odoravano di salsedine e occhi che sembravano riflettere le onde del Tirreno. Ogni sera, sulla veranda della loro casa in Via Stromboli, tirava fuori una vecchia radio a transistor, con l’antenna storta e il suono che gracchiava come un gabbiano. Una sera, mentre il sole calava tingendo il mare di rosso, Antonio sintonizzò la radio su una stazione che trasmetteva Hungry Heart di Bruce Springsteen. La voce roca di Springsteen riempì l’aria, cantando di un uomo con un cuore affamato, in cerca di qualcosa che non trovava mai. Antonio non parlava, ma Luca lo vedeva muovere le labbra, come se quelle parole fossero sue. “Questa canzone parla di chi corre, guagliò,” disse Antonio, con un tono che sembrava un sussurro del mare. “Corre per trovare casa, ma a volte non sa dove sta andando.” Luca, seduto a terra con un gelato che gli colava sulle mani, non capiva del tutto, ma sentiva il peso di quelle parole, come se il Tirreno stesso le cantasse, un mare che aveva visto suo padre correre per tutta la vita – sulle barche, contro le tempeste, contro un destino che non gli dava mai pace.

Salvatore, lo zio di Luca, era un fuoco che non si spegneva mai, un uomo che sembrava fatto della stessa schiuma ribelle del Tirreno in tempesta. A 35 anni, Salvatore era un’anima vagabonda intrappolata in una vita che non gli apparteneva. Lavorava al porto di Amantea, caricando casse di pesce sotto il sole cocente, con le braccia tatuate che raccontavano storie di giorni migliori: un’ancora sbiadita sul bicipite destro, simbolo di un viaggio in Sardegna da giovane, e una sirena sgraziata sul polso sinistro, fatta da un amico ubriaco a Tropea. Ma Salvatore non era nato per il porto: sognava di essere un marinaio, un musicista, un poeta che cantava le sue storie al mondo. Aveva una Vespa scassata, un modello del ’72 dipinto di un rosso sbiadito, con macchie di ruggine che sembravano lacrime, e la usava per scappare, correndo lungo la costa da Amantea a Coreca, con una sigaretta sempre in bocca e un sorriso che nascondeva una malinconia che solo il mare capiva.

Salvatore era il ribelle della famiglia, quello che aveva detto no a una vita da pescatore come suo fratello Antonio. Da ragazzo aveva provato a lasciare Amantea, trasferendosi a Roma negli anni ’70 per diventare cantante, ma era tornato dopo un anno, con il cuore spezzato da una ragazza dai capelli rossi e il portafoglio vuoto. Ora, il porto era la sua prigione, ma la musica e le storie erano la sua libertà. Salvatore aveva un vecchio giradischi e una collezione di vinili che custodiva come un tesoro, e passava le sue serate al Bar Centrale, bevendo Moretti tiepide e raccontando leggende del mare – storie che aveva sentito dai vecchi pescatori, dalle donne in processione, o che gli aveva tramandato suo nonno, intrecciate a miti greci legati al mare che aveva imparato da marinai greci di passaggio al porto di Amantea. Con Luca, Salvatore era un narratore, un cantastorie che trasformava il Tirreno in un mondo di mistero e magia. Una mattina, mentre il mare era calmo e il sole scaldava la spiaggia, Salvatore prese il giradischi portatile e lo portò sulla spiaggia di Campora San Giovanni. Mise su Shelter from the Storm di Bob Dylan. L'evocativa voce del menestrello americano, piena di crepe, cantò di un rifugio dalla tempesta, di un uomo perso che cercava salvezza. Salvatore guardò Luca, con un sorriso che nascondeva una malinconia che il bambino non poteva capire, e disse: “Il mare è una tempesta, piccolo. Ma a volte ti dà un rifugio, anche solo per un momento. Questa canzone parla di me, sai? Ho cercato il mio rifugio, ma non l’ho mai trovato.”

Poi Salvatore iniziò a raccontare leggende del mare, storie che trasformavano il Tirreno in un luogo di magia e mistero, un luogo che non era solo pesca e fatica, ma anche sogno e paura. La prima leggenda era quella della Sirena di Capo Vaticano, una creatura che i pescatori giuravano di aver visto al largo, un essere antico che abitava le acque tra la Calabria e la Sicilia da secoli. Aveva capelli di alghe nere che si muovevano come correnti marine, occhi che brillavano come il sole sul mare al tramonto, e una pelle che scintillava di squame argentate, come se fosse fatta di schiuma e luce. Si diceva che emergesse nelle notti di bonaccia, seduta su uno scoglio al largo di Capo Vaticano, pettinandosi i capelli con un pettine di corallo e cantando una melodia ipnotica, un canto che sembrava un lamento d’amore e di morte intrecciati. La sua voce era così dolce che i marinai dimenticavano il mondo: lasciavano cadere le reti, spegnevano i motori delle barche, e si avvicinavano, ammaliati, finché le loro imbarcazioni si schiantavano contro gli scogli nascosti sotto la superficie. “Peppe Occhi di Vetro diceva di averla vista,” raccontò Salvatore, con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra. “Era il ’68, una notte senza luna. Disse che il suo canto era come un lamento, ma così bello che non potevi smettere di ascoltarlo. La sua barca, la Maria Luce, si incagliò su uno scoglio, e lui si salvò per miracolo, ma perse un occhio cadendo in mare. Da allora, cantava una melodia che diceva di aver imparato da lei, una melodia che sembrava venire dal fondo del Tirreno, e la insegnava ai bambini sulla spiaggia, come per non dimenticarla mai.” Le donne di Amantea, però, dicevano che la sirena non era solo un pericolo: se un pescatore le offriva un dono – una conchiglia, un fiore, un pezzo di pane – lei poteva esaudire un desiderio, ma a un prezzo. “Il mare non dà niente gratis, piccolo,” disse Salvatore, con un tono che si abbassava come se stesse rivelando un segreto. “La sirena ti dà, ma poi ti prende qualcosa in cambio.”

Salvatore continuò, intrecciando la leggenda locale con miti greci legati al mare, che aveva sentito da marinai greci al porto e che lo avevano affascinato per la loro potenza. C’era il mito delle Sirene di Ulisse, le creature dell’Odissea che attiravano i marinai con il loro canto irresistibile. “Non sono come la nostra sirena di Capo Vaticano,” disse Salvatore, con gli occhi che brillavano. “Queste sirene vivevano su un’isola lontana, circondate da scogli e ossa di marinai. Cantavano promesse di conoscenza e felicità, ma chi le ascoltava finiva per morire di fame, incapace di smettere di ascoltarle. Ulisse, un eroe greco, le affrontò: si fece legare all’albero della sua nave e ordinò ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera, così passò vicino a loro e sentì il loro canto senza morire. Un marinaio greco al porto mi disse che il loro canto si sente ancora, a volte, nelle isole lontane, ma solo i coraggiosi osano avvicinarsi.” Poi c’era il mito di Scilla e Cariddi, due mostri che abitavano lo Stretto di Messina, non lontano dalla Calabria. Scilla, una ninfa trasformata in un mostro con sei teste piene di denti affilati, divorava i marinai che passavano troppo vicino alla sua grotta, mentre Cariddi, un vortice vivente, inghiottiva intere navi in un solo sorso, sputando l’acqua con una forza che poteva capovolgere il mare. “I marinai greci me ne parlavano al porto,” disse Salvatore. “Dicevano che dovevi scegliere: o affrontavi Scilla e perdevi sei uomini, o passavi vicino a Cariddi e rischiavi di perdere tutto. Il mare ti mette sempre davanti a una scelta, e nessuna è buona.” Infine, Salvatore raccontò il mito di Icaro e Dedalo, che non erano marinai, ma la cui storia finì nel mare. Dedalo, un inventore geniale, costruì ali di piume e cera per sé e per suo figlio Icaro, per fuggire da Creta. Ma Icaro volò troppo vicino al sole, la cera si sciolse, e cadde nel mare, che da allora fu chiamato Mar Ionio, vicino alla Calabria. “Un pescatore di Crotone mi disse che, nelle notti di tempesta, si vedono piume bianche galleggiare sul Mar Ionio,” raccontò Salvatore, con un tono che si spezzava. “Sono le piume di Icaro, che il mare non ha mai dimenticato.” Salvatore concluse con un sussurro: “Il mare non dimentica, piccolo. Tiene tutto dentro, e a volte te lo racconta, se sai ascoltare.”

Quell’estate del 1986, però, il mare e la musica trovarono un momento di armonia, una sera di fine giugno che Luca non avrebbe mai dimenticato. Antonio e Salvatore avevano litigato, una delle loro discussioni che iniziavano per niente – una rete da pesca rotta, un debito mai pagato – e finivano con urla che squarciavano il silenzio di Amantea. Luca era sulla spiaggia, a pochi passi dalla casa, con un secchiello in mano e un castello di sabbia mezzo crollato, distrutto da un’onda improvvisa. Sentì le voci, poi un silenzio che pesava più di mille parole. Salvatore uscì di casa, con il giradischi portatile sotto il braccio, e si sedette accanto a Luca, il viso rosso e gli occhi lucidi. “Tuo padre non capisce,” mormorò, accendendo una sigaretta con le mani che tremavano. “Pensa che il mare sia solo fatica, ma non è così. È anche musica, è anche mistero. È la sirena di Capo Vaticano, le sirene di Ulisse, Scilla e Cariddi, le piume di Icaro.” Poi mise su Shiver Me Timbers di Tom Waits, e la voce rauca di Waits riempì l’aria, cantando di marinai, di addii, di un mare che chiamava e non lasciava mai andare. Salvatore cantò con lui, a bassa voce, e Luca sentì il Tirreno rispondere, con onde che si infrangevano come un coro, un mare in tempesta che sembrava cantare insieme a loro, un mare che portava con sé i misteri di tutte le leggende che Salvatore aveva raccontato.

Antonio li raggiunse sulla spiaggia, con la radio a transistor in mano. Non disse niente, si sedette dall’altra parte di Luca, e per la prima volta i due fratelli lasciarono che la musica parlasse per loro. La radio di Antonio trasmetteva ancora Springsteen, una reprise di Hungry Heart, mentre il giradischi di Salvatore continuava con Shiver Me Timbers, e per un momento le due canzoni si mescolarono, un intreccio di voci e melodie che sembrava venire dal profondo del Tirreno. Luca, in mezzo a loro, sentì il mare cantare, un mare che portava con sé il dolore di suo padre – le reti vuote, le tempeste, i sogni mai realizzati – e la speranza di suo zio – le storie, le leggende, la voglia di correre. “Questa è la tua musica, guagliò,” disse Antonio alla fine, con una voce che per la prima volta sembrava spezzarsi. “Non dimenticarla mai.” Salvatore annuì, con un sorriso triste, e aggiunse: “Un giorno la canterai anche tu, Luca. E il mare ti ascolterà.”

***** CONCLUSIONE *****

I giorni passarono, e quel momento svanì come un’onda sulla spiaggia. Salvatore se ne andò pochi mesi dopo, partito per Napoli con la sua Vespa e la promessa di tornare, una promessa che non mantenne mai. Antonio smise di ascoltare la radio, e i suoi silenzi diventarono più pesanti, come se il mare che aveva dentro lo stesse soffocando. Luca crebbe, e il mare in tempesta della sua infanzia si nascose sotto la superficie, coperto dalle cassette di pelati, dai motorini truccati e dai sogni di Bologna. Ma la musica di quella sera, le voci di Springsteen, Dylan e Waits, e le leggende del mare di Salvatore, non lo lasciò mai davvero.

Anni dopo, a Bologna, dopo il concerto al Cortile – con il pubblico che urlava e la pioggia che lavava via il sudore dal suo viso – Luca chiuse gli occhi e vide quella spiaggia, sentì quel mare. Sentì Hungry Heart che parlava di suo padre, Shelter from the Storm che raccontava suo zio, Shiver Me Timbers che cantava il Tirreno e le sue leggende – la sirena, le sirene di Ulisse, Scilla e Cariddi, le piume di Icaro. La musica che aveva cantato quella notte, Salsedine e Asfalto, non era solo sua: era la musica di Antonio, di Salvatore, del mare che lo aveva cresciuto. Era un ricordo che credeva perduto, ma che riaffiorò come una barca in un mare in tempesta, un mare che non lo avrebbe mai lasciato andare.

Sotto i portici di Via Zamboni, con Thunder Road nelle cuffie e il cuore che batteva ancora forte, Luca ripensò a suo padre e a suo zio, a quella sera sulla spiaggia, e gli vennero in mente i versi di una canzone di De Gregori che aveva scoperto da poco: “Due buoni compagni di viaggio non dovrebbero lasciarsi mai, potranno scegliere imbarchi diversi, saranno sempre due marinai.” Questo verso in modo particolare gli ricordava Salvatore. Adesso Luca capiva davvero, adesso i tempi erano maturi per il cambiamento e per la consapevolezza.  Lui e il mare, lui e la musica, lui e Amantea: erano compagni di viaggio, marinai che non si sarebbero mai lasciati. Ma poi ricordò il resto della canzone, venendo preso da una azzurra celeste nostalgia: “Lei disse misteriosamente: ‘Sarà sempre tardi per me quando ritornerai.’ E lui buttò un soldino nel mare, lei lo guardò galleggiare, si dissero ciao per le scale, e la luce dell’alba da fuori sembrò evaporare.” Luca buttò un soldino immaginario nel mare dei suoi ricordi, guardò Amantea galleggiare nella sua mente, e sussurrò un ciao al passato. La luce dell’alba, fuori dai portici, solo per un istante sembrò evaporare, ma dentro di lui, la musica e le leggende del mare non si sarebbero mai spente.

FINE

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