La notte in cui le stelle sussurravano
Avevo 25 anni durante l’estate del 2005. Siamo sulla Costa
Tirrenica ed è la notte di San Lorenzo. Mi pulsava nelle vene come una ballata
di Bruce Springsteen, e la Costa Tirrenica era la mia Asbury Park: un litorale
di sogni e promesse che il mare sussurrava a ogni onda. Ero tornato da un
viaggio in Spagna da appena una settimana, con la pelle ancora calda del sole
di Granada e il cuore gonfio di un desiderio che non riuscivo a contenere:
vivere una vita romantica, epica, come le canzoni che mi avevano cresciuto. A
Barcellona un uomo svelto fruga tra i ricordi, dietro la schiena il suolo e non
capisce perché è li. L'arena è tutta in piedi, non si muove un filo d'aria, sa
di tequila e sale e di dolore andarsene. L'ultima pagina che hai letto è stata
un toro in mezzo al petto. In Spagna avevo vagato per le strade di Pamplona,
inseguendo l’eco di Hemingway, sentendo la terra tremare sotto i tori e il vino
scorrere come un racconto di Fiesta. Quella terra mi aveva trasformato: avevo
cantato in piazze affollate, condiviso storie con sconosciuti sotto cieli
stellati, e ora vedevo la Costa Tirrenica con occhi nuovi, come se ogni luce,
ogni giostra arrugginita, ogni granello di sabbia fosse parte di una storia
d’amore senza fine. La mia Fiat Punto scassata, con il mangianastri che cantava
nonostante i graffi, mi aveva riportato su questa costa dove ogni tramonto era
una dichiarazione d’amore.
Era la notte di San Lorenzo, e un impulso inspiegabile mi
aveva spinto a unirmi a un falò sulla spiaggia di Scalea, insieme a Rino, il
mio migliore amico dai tempi del liceo. Rino era più di un amico: era il mio
complice, il chitarrista che dava vita alle mie canzoni, il fratello con cui
avevo condiviso sogni, risate e qualche lacrima. Con i suoi capelli
disordinati, la camicia aperta sul petto e quella vecchia Fender che trattava
come un’amante, Rino era l’anima rock delle nostre serate. La nostra amicizia
era nata sui banchi del liceo, tra pomeriggi passati a marinare la scuola per
ascoltare Springsteen sul lungomare, fantasticando di diventare una band e
conquistare il mondo. “Dariù, stasera facciamo tremare la costa,” mi aveva
detto, con un ghigno che prometteva guai e magia. Io portai una bottiglia di
vino rosso e una musicassetta pronta: The River. Rino aveva la sua chitarra, e
io la mia voce, quella di un frontman nato per accendere la notte.
Il falò crepitava già quando arrivammo, sputando scintille
verso un cielo così pieno di stelle che sembrava un sogno dipinto. C’era Luca,
con la sua risata che sfidava il rumore delle onde, Martina che rollava una
canna con un sorriso complice, Anna che cantava senza curarsi di essere
intonata, e Marco che raccontava storie di pescatori con l’entusiasmo di un
bambino. Eravamo una banda di sognatori, con il cuore spalancato e l’estate che
ci scorreva sottopelle, e quella spiaggia era il nostro palcoscenico, il nostro
Asbury Park.
Misi su 4th of July, Asbury Park (Sandy) da The Wild, the
Innocent & the E Street Shuffle. La fisarmonica e il pianoforte si
intrecciarono con il suono del mare, e la voce di Springsteen mi avvolse come
una brezza calda. “Sandy, the fireworks are hailin’ over Little Eden tonight,”
cantava, e io guardavo la Costa Tirrenica, con le sue luci che tremolavano come
fuochi d’artificio, le giostre arrugginite che giravano lente contro
l’orizzonte, il litorale che si stendeva come una promessa d’amore eterno.
Questa non era solo una spiaggia: era un sogno che respirava, un luogo dove il
cuore batteva al ritmo delle onde, dove ogni brezza portava il profumo di pini,
salsedine e possibilità. La Costa Tirrenica era romantica, selvaggia, come una
canzone di Springsteen che ti fa venir voglia di correre verso l’amore, anche
se la strada è incerta.
“Dariù, dai, facci volare!” disse Rino, pizzicando le corde
della sua chitarra con un sorriso che diceva tutto: eravamo lì per lasciare un
segno. Gli feci un cenno, e lui attaccò l’intro di Rosalita (Come Out Tonight),
le sue dita che danzavano sulle corde come se la chitarra fosse un’estensione
del suo cuore. Io lasciai che la mia voce esplodesse, da vero frontman.
“Rosalita, jump a little lighter, come on and dance with me tonight!” cantai, e
gli altri si unirono, ridendo, ballando sulla sabbia, con il falò che
illuminava i loro volti come un sogno. La spiaggia era una poesia viva: le luci
dei chioschi lungo il litorale brillavano come stelle cadute, il profumo di
pesce fritto si mescolava a quello della salsedine, e le coppiette che
passeggiavano mano nella mano sembravano uscite da una strofa di Bruce. Ogni
nota era un battito del cuore, ogni onda un invito a credere nell’amore, in un
futuro che fosse grande come i sogni di quella notte.
Rino e io eravamo una squadra forgiata dal tempo. Tutto era
iniziato a sedici anni, nel garage di suo zio a Scalea, con un amplificatore
scassato e una cassetta di Born to Run che girava all’infinito. Ricordo le sere
d’estate in cui guidavamo lungo la costa con la sua Panda scalcagnata, cantando
Thunder Road a squarciagola, convinti che il mondo ci stesse aspettando. Una
volta, dopo un litigio con mio padre, Rino mi aveva trascinato sulla spiaggia
di Diamante, mi aveva passato una birra e aveva suonato Spirit in the Night
finché non avevo smesso di piangere. “Dariù, la vita è come una canzone di
Springsteen,” mi aveva detto. “Devi cantarla, anche quando fa male.” Da allora,
ogni volta che mi perdevo, Rino era lì, con la sua chitarra e quel sorriso che
diceva: “Ce la facciamo, amico.” Al liceo, avevamo passato notti intere sul
tetto della scuola, sognando di essere la E Street Band, con lui che
strimpellava e io che cantavo finché l’alba non dipingeva il mare di rosa. “Un
giorno, Dariù,” mi aveva detto una volta, “canteremo su un palco vero. Ma
questa costa? Sarà sempre casa nostra.”
“Sai, Dariù,” mi disse Rino durante una pausa, passandomi
una birra mentre il falò crepitava, “a volte penso a quel Vincenzo dei tuoi
racconti. Quel tipo con l’Autobianchi e il giubbotto di pelle, che ti ha fatto
scoprire Springsteen. Mi sembra di conoscerlo, con tutte le storie che mi hai
raccontato. Era un po’ come noi, no? Sempre a inseguire qualcosa di più
grande.” Sorrise, e io scoppiai a ridere. Gli avevo parlato di Vincenzo così
tante volte – il meccanico poeta che mi aveva messo in mano The River e mi
aveva insegnato a vivere la musica – che per Rino era quasi una leggenda.
“Già,” risposi, “ma tu sei meglio. Vincenzo non ha mai suonato un assolo come
il tuo su Rosalita.” Rino rise, strimpellando un riff che sembrava fatto di
stelle e salsedine. “Vero, ma lui aveva stile. Però, Dariù, noi due? Siamo
imbattibili.”
Fu allora che la vidi. Bruna. Era dall’altra parte del falò,
seduta su una coperta, con i capelli scuri che danzavano al vento come una
cascata di seta e un bicchiere di plastica in mano. Indossava una gonna lunga
che sfiorava la sabbia e una canottiera bianca che catturava la luce della
luna, e rideva con un’amica, con una risata che sembrava contenere tutto il
mare della Costa Tirrenica. Il mio cuore si fermò, poi ripartì al galoppo, come
se Sandy stesse cantando solo per me. Bruna era più di una ragazza: era la
Costa Tirrenica fatta carne, selvaggia e dolce, con occhi che brillavano come
le stelle di San Lorenzo. L’avevo amata in silenzio da quando ero un
adolescente, quando ascoltavo Thunder Road e sognavo di scappare con lei. Ora
era lì, a pochi metri, e ogni nota di Sandy mi sussurrava di andare da lei, di
cantarle il mio cuore.
“Ancora Bruna, eh?” disse Rino, seguendo il mio sguardo.
“Dariù, sei un romantico senza rimedio.” Mi diede una gomitata, ma nei suoi
occhi c’era una comprensione che solo lui poteva avere. Rino sapeva tutto di
me: i miei sogni di gloria, le mie paure di fallire, il modo in cui Bruna mi
faceva sentire come se il mondo fosse più grande e più bello. Al liceo, era
stato lui a spingermi a cantare per la prima volta davanti a un pubblico, a una
festa sulla spiaggia, quando avevo dedicato I’m on Fire a Bruna senza mai dirle
che era per lei. “Canta per lei, amico,” mi disse sottovoce, strimpellando un
accordo morbido che sembrava fatto apposta per il momento. “Non lasciare che
questa diventi un’altra Fade Away.” Mi strizzò l’occhio, e io sentii il fuoco
dentro di me divampare.
Presi un sorso di birra, cercando di calmare il battito del
cuore, ma la cassetta era passata a Two Hearts da The River, e le parole di
Bruce mi stavano scavando l’anima. “Two hearts are better than one,” cantava, e
io immaginavo di prendere la mano di Bruna, di cantarle una serenata sotto le
stelle, di confessarle che ogni canzone era per lei. La guardavo, persa nella
sua risata, con i capelli che catturavano la luce del falò, e mi sembrava
l’incarnazione di tutto ciò che rendeva questa costa magica: la sua bellezza,
la sua libertà, il suo modo di farti credere che l’amore potesse essere eterno.
I nostri sguardi si incrociarono per un istante, e lei mi sorrise – un sorriso
caldo, timido, che mi fece tremare. Era la notte in cui le stelle sussurrano
canzoni di gloria e di redenzione, e in quel momento sentii che il cielo stesso
mi stava parlando, solo che non capivo bene cosa stesse dicendo, né il
perché. Era una notte come questa,
stesse stelle, stesse sensazioni. La luna pian piano spariva nell’acqua.
Sentivo il tuo respiro. Avrei voluto parlarti e avrei voluto dirti, le cose che
non riesco a dire se la notte e il vento hanno mai visto un uomo,
osservare angeli zingari. Ballare nella notte, circondati dal fuoco dei loro
peccati, dei loro sogni di gioventù, di rimpianti e di redenzione. Guardavo
Bruna, e in lei vedevo quegli angeli zingari, danzanti al confine tra sogno e
realtà, con il falò che ardeva come un altare dei loro desideri. Avrei voluto
attraversare il fuoco, cantarle I Wanna Marry You con tutto il fiato che avevo,
dirle che la Costa Tirrenica era più bella perché c’era lei, che sognavo di
portarla via come in Born to Run. Ma il coraggio mi tradì, e lei tornò a ridere
con la sua amica, lasciando il mio cuore sospeso tra il desiderio e un dolce
rimpianto.
La notte continuò, avvolta in un romanticismo che sembrava
un sogno a occhi aperti. Rino e io guidammo la serata, lui con i suoi riff che
accendevano l’aria, io con la mia voce che raccontava storie d’amore e libertà.
Cantammo Spirit in the Night, con il suo ritmo che sa di amori estivi, e I
Wanna Marry You da The River, che fece sospirare Anna e sorridere Martina. La
chitarra di Rino era un’estensione della mia voce, e insieme trasformammo la
spiaggia in un tempio dell’amore: il litorale si stendeva all’infinito, con le
sue luci che danzavano come lucciole, le giostre che giravano come un carillon
romantico, il profumo della salsedine che si intrecciava a quello del vino. La
Costa Tirrenica era un’amante che non ti lascia mai, che ti sussurra di credere
nei sogni, di inseguire l’amore, di vivere ogni momento come se fosse l’ultima
strofa di una canzone di Springsteen.
Verso mezzanotte, il falò iniziò a spegnersi, e ci sdraiammo
sulla sabbia a guardare le stelle cadenti. La cassetta girava ancora, e Fade
Away riempì l’aria con la sua dolcezza che stringe il cuore. La Costa Tirrenica
era un quadro perfetto: il mare che luccicava sotto la luna, le luci del
litorale che sembravano un invito a non smettere mai di sognare, le giostre che
continuavano a girare come se il tempo fosse solo un’illusione. Rino era
sdraiato accanto a me, la sua chitarra posata sulla sabbia. “Ti ricordi quella
volta al liceo, Dariù?” disse, con un sorriso nostalgico. “Quando abbiamo
suonato Born to Run alla festa di fine anno e tutti pensavano fossimo matti?
Eravamo convinti che saremmo diventati famosi.” Scoppiai a ridere, ripensando a
noi due, diciottenni, con i capelli troppo lunghi e sogni più grandi del mondo.
“E tu che hai rotto una corda a metà canzone,” gli risposi. “Ma abbiamo
continuato a cantare lo stesso.” Rino annuì, guardando le stelle. “Sai, mi sa
che è per questo che siamo ancora qui, a cantare sulla spiaggia. Perché non
smettiamo mai di crederci. Come quel Vincenzo dei tuoi racconti, con la sua
Autobianchi e le sue storie di libertà.”
Sentii una stretta al cuore. Rino aveva ragione: la nostra
amicizia era fatta di momenti come quello, di notti passate a inseguire sogni
impossibili, di canzoni che ci tenevano in vita. Ricordai un’altra serata,
quando avevamo diciassette anni, e Rino mi aveva convinto a salire sul tetto
della scuola per guardare l’alba. Aveva suonato Thunder Road con la sua
chitarra acustica, e io avevo cantato finché il sole non era spuntato sul mare.
“Un giorno, Dariù,” mi aveva detto, “canteremo su un palco vero. Ma questa
costa? Sarà sempre il nostro posto.” Quella promessa ci aveva legati, anno dopo
anno, attraverso le delusioni, i primi amori, le serate passate a bere vino
scadente e a parlare di un futuro che sembrava sempre a un passo di distanza.
Feci un desiderio, ma non per Bruna, anche se il suo nome
cantava in ogni battito del mio cuore. Desiderai una vita che fosse grande come
questa notte, una vita che brillasse come Sandy, che bruciasse come il falò,
che fosse romantica come la Costa Tirrenica sotto le stelle. Fu allora che
capii che dovevo partire. Non per la Spagna, dove avevo inseguito l’ombra di
Hemingway, ma per l’Irlanda. Avevo sentito che la Apple stava assumendo a Cork,
e l’idea di lavorare in una città viva, piena di musica e possibilità, mi
chiamava come una strofa di Rosalita. Non sarebbe stato facile: il mio lavoro
al bar mi dava appena di che vivere, e la Punto non sarebbe sopravvissuta a un
viaggio del genere. Ma la Costa Tirrenica, con tutta la sua magia, non poteva
essere il mio unico mondo. Asbury Park era il mio cuore, ma Cork poteva essere
il mio futuro.
“Irlanda, eh?” disse Rino quando glielo raccontai, con un sorriso che era metà orgoglio e metà malinconia. “Vai, Dariù. Ma promettimi che scriverai una canzone per questa notte. E magari una per Bruna.” Strimpellò un riff che sembrava parlare di libertà, e io scoppiai a ridere. “Affare fatto,” risposi, sapendo che Rino sarebbe sempre stato con me, anche a migliaia di chilometri di distanza, nelle note di una chitarra e nel ricordo di questa costa. Prima di lasciare la spiaggia, lanciai un ultimo sguardo a Bruna. Stava danzando vicino al falò, con i capelli che catturavano la luce della luna, ridendo come se il mondo fosse un regalo fatto solo per lei. Non le parlai, non quella notte. Ma promisi a me stesso che un giorno sarei tornato, con una canzone scritta per lei, e le avrei cantato che la Costa Tirrenica era stata il nostro Asbury Park, un luogo dove l’amore era possibile, anche solo per una notte. Per ora, però, dovevo correre. L’Irlanda mi aspettava, e con lei una vita che speravo fosse grande come i sogni di quell'estate in cui uscimmo a riveder le stelle.
+++ La notte in cui le stelle sussurravano +++
**** Una storia di Dario Greco ****
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