Intrappolati a Firmo coi Blues di Tarsia
Il crepuscolo si scioglieva come cera sulla Highway 61, una striscia d’asfalto che tagliava il delta come una vena pulsante. La luce del tramonto dipingeva il cielo di sfumature arancio e viola, mentre io e Lila guidavamo verso sud, il vento caldo che ci accarezzava i volti attraverso i finestrini abbassati. La radio gracchiava una vecchia canzone di Luke the Drifter, e il mondo sembrava sospeso, come se il tempo stesso stesse trattenendo il fiato. Eravamo giovani, allora. Non giovani di età, ma di cuore. Credevamo che la notte fosse infinita, che le sue promesse fossero scritte nelle stelle sopra di noi, stelle che non brillavano, ma sussurravano. Sussurravano di sogni, di rivoluzioni, di un mondo che potevamo cambiare. Lila teneva una sigaretta tra le dita, il fumo che si mescolava all’aria densa del Mississippi. “Sai,” disse, rompendo il silenzio, “una volta pensavo che avremmo fermato tutte le guerre. Che avremmo trovato quello che manca.”
“Quello che manca,” ripetei, gli occhi fissi sulla strada. “Cosa manca, Lila?” Si voltò verso di me, i suoi occhi verdi che brillavano come fari nella penombra. “Non lo so. Ma è stato via troppo a lungo.”
Le strade secondarie ci portavano attraverso un’America che sembrava un dipinto sbiadito. Passammo davanti a un tendone illuminato da luci al neon, dove un predicatore urlava di redenzione a una folla di anime perse. Più avanti, un cartello sgangherato proclamava “Dio benedica l’America – Armi e munizioni”. Lila rise, una risata amara. “Non credo sia questo che intendeva.” Continuammo a guidare, incrociando volti che sembravano usciti da un mazzo di carte truccato: imbroglioni con sorrisi affilati, vagabondi che cantavano blues sotto cieli troppo grandi. Ogni tanto, Lila canticchiava il ritornello di quella canzone che ci inseguiva: We had dreams when the night was young… La sua voce era fragile, ma aveva una forza che mi faceva quasi credere che potessimo davvero tornare indietro, a quando la notte era giovane e il mondo sembrava malleabile. A un certo punto, ci fermammo in un motel scalcinato, il tipo di posto dove il tempo si arena come un relitto. Nel parcheggio, un cartello al neon lampeggiava: “Pentitevi, la fine è vicina”. Lila lo fissò a lungo, poi scosse la testa. “Non è la fine che ci serve,” mormorò. “È un cuore che batte nella direzione giusta.”
Entrammo nella hall, e lì, come un’apparizione, c’era un tizio che sembrava uscito da un quadro di Warhol: occhiali scuri, capelli ossigenati, una sigaretta che pendeva dalle labbra. Stava seduto su una poltrona logora, scribacchiando qualcosa su un taccuino. “Aspetta la sua musa,” sussurrò Lila, con un mezzo sorriso. “Ma non tornerà prima dell’alba. È andata in città a inseguire il blues.” Ci sedemmo al bancone del diner accanto al motel, ordinando caffè che sapeva di catrame. Fuori, la notte si era fatta più densa, le stelle nascoste da nuvole basse. Parlai a Lila di come, da ragazzo, guardavo il cielo e immaginavo che ogni stella fosse un desiderio non ancora espresso. Lei mi ascoltò in silenzio, poi disse: “Forse è per questo che mancano. Abbiamo smesso di desiderare.” Tornammo in macchina quando l’alba era ancora un’idea lontana. La strada davanti a noi si perdeva nell’oscurità, ma c’era qualcosa di vivo in quel buio, qualcosa che ci chiamava. Lila appoggiò la testa al finestrino, i capelli che danzavano nel vento. “Sai,” disse piano, “forse non possiamo cambiare il mondo. Ma possiamo ancora abbracciare il mistero.” E mentre guidavamo, con il delta che si spalancava intorno a noi come un segreto, sentii il mio cuore battere, finalmente, nella direzione giusta. Le stelle, lassù, stavano ancora sussurrando. E noi, per quella notte, le ascoltavamo.
Intrappolati a Firmo con i blues di Tarsia - Seconda parte
Il motore della vecchia Pontiac ronzava piano, quasi ipnotico, mentre io e Lila ci lasciavamo alle spalle il motel scalcinato e la sua hall dove un poeta con occhiali scuri attendeva una musa che non sarebbe tornata. La Highway 61 si srotolava davanti a noi come un nastro di seta nera, il delta del Mississippi che respirava ai lati, con il suo odore di terra umida e promesse spezzate. Ma qualcosa, quella notte, ci chiamava altrove. Lila, con lo sguardo perso oltre il finestrino, sussurrò: “E se andassimo più lontano? Non solo sud, ma… altrove.” I suoi occhi verdi brillavano, come se avessero catturato una scheggia di stelle. “Altrove,” ripetei, e senza pensarci troppo sterzai, seguendo un impulso che non aveva nome. La strada si dissolse, o forse fu il mondo a farlo. Quando riaprii gli occhi, non eravamo più sulla 61. L’asfalto era diverso, più ruvido, e il vento portava un sapore di sale e ulivi. Eravamo sulla Statale 106, in Calabria, lungo il delta del Crati, dove il mare Jonio scintillava come un sogno liquido sotto un cielo trapunto di stelle che non brillavano, ma cantavano. Cantavano una melodia antica, un blues che si intrecciava a una tarantella, e noi, sospesi in quella notte surreale, ascoltavamo. “È lo stesso viaggio,” disse Lila, accendendo una sigaretta. Il fumo si alzò in spirali, mescolandosi alle note invisibili delle stelle. “La 61, la 106… sono la stessa strada, solo che parlano lingue diverse.” Sorrise, e il suo sorriso era un ponte tra due continenti, tra il Mississippi e la Sibaritide. Guidammo in silenzio, la 106 che ci portava attraverso borghi addormentati e rovine di templi greci, ombre di Sybaris che sussurravano di ricchezze perdute. Passammo un cartello arrugginito: “Pentitevi, la fine è vicina”. Lila rise, come aveva fatto davanti a quello su Dio e le munizioni lungo la 61. “Non è la fine che vogliamo,” disse. “È il mistero.”
Poi, come evocata da un sogno, apparve la diga di Tarsia. Si ergeva nel cuore del delta, un gigante di cemento che tratteneva il Crati, le sue acque immobili come uno specchio che rifletteva il cielo. Fermai la macchina, e scendemmo. L’aria era densa, carica di un’energia che vibrava tra il reale e l’impossibile. La diga sembrava viva, pulsante, come un cuore che batteva al ritmo della canzone di Robbie Robertson: We had dreams when the night was young. “Guarda,” disse Lila, indicando il cielo sopra la diga. Le stelle non erano più solo punti di luce, ma fili d’argento che si intrecciavano, formando figure: un’armonica, una chitarra, una donna che danzava con un tamburello. “È il delta che canta,” mormorò. “Il Mississippi, il Crati… sono lo stesso fiume, solo che scorrono in vene diverse.” Ci sedemmo sull’erba umida, la diga che ci guardava come un guardiano antico. Pensai a quando, sulla 61, credevamo di poter fermare le guerre, cambiare il mondo. Ora, qui, sulla 106, quelle speranze sembravano lontane, ma non perdute. “Cosa manca, Lila?” chiesi, riprendendo la domanda di quella notte americana. Lei si sdraiò, i capelli sparsi come un’aureola scura. “Manca il coraggio di abbracciare il mistero,” rispose. “Sulla 61 cercavamo risposte. Qui, sulla 106, forse dobbiamo solo ascoltare.”
Le stelle cantavano più forte, ora, e la diga sembrava rispondere, un ronzio profondo che saliva dal cemento. Vidi, o forse sognai, un uomo con un cappello da cowboy e una chitarra, fermo sulla cima della diga. Cantava di sogni giovani, di notti che non finiscono mai. Accanto a lui, una donna con un velo di lino danzava, i piedi che battevano un ritmo calabrese. Erano Robert Johnson e una musa di Sybaris, o forse erano solo ombre del nostro cuore. Lila mi prese la mano, e per un istante il tempo si fermò. La 61 e la 106 si fusero in un’unica strada, il Mississippi e il Crati in un unico fiume. La diga di Tarsia non era più solo cemento, ma un altare dove il passato e il futuro si incontravano, dove i sogni di una notte giovane si trasformavano in qualcosa di eterno. “Sai,” disse Lila, “forse non cambieremo il mondo. Ma possiamo cantare con le stelle.” E così, mentre l’alba cominciava a tingere il delta di rosa, ci rimettemmo in macchina. La Pontiac, o forse era un’altra auto, scivolò lungo la 106, poi sulla 61, poi in un luogo che non aveva nome. Le stelle ci seguivano, sussurrando, cantando, e noi, per quella notte, eravamo parte del loro mistero. La strada davanti a noi si perdeva nell’orizzonte, ma non importava. Eravamo giovani, non di età, ma di cuore. E la notte, quella notte, era ancora giovane.
Sussurri tra i delta delle stelle - Terza Parte
Io e Lila, sospesi in un sogno che odorava di fango e sale, avevamo lasciato la Highway 61, poi la Statale 106, per ritrovarci in un luogo dove le strade non avevano nome, ma cantavano. Le stelle sopra di noi non erano più solo luci: erano frammenti di specchi rotti, ciascuno riflettente un delta diverso, un mondo diverso. Cantavano, non con voci, ma con melodie che si intrecciavano come fiumi: il blues del Mississippi, la tarantella del Crati, il lamento del Mekong, il sospiro del Nilo. Ogni delta era una strofa, ogni strada un verso, e noi eravamo poeti senza parole, persi in una poesia che si scriveva da sola.
Lila, con i capelli che danzavano come alghe nel vento, indicò l’orizzonte. “Guarda,” sussurrò, la voce un filo di seta. Davanti a noi, la diga di Tarsia si ergeva, ma non era più solo cemento. Era una cattedrale di cristallo e fango, le sue pareti incise con rune che raccontavano di fiumi dimenticati. Le acque del Crati, trattenute, scintillavano come se custodissero segreti di Sybaris, l’antica città sommersa. Ma mentre guardavo, la diga mutò: divenne un tempio di canne intrecciate, lambito dal Mekong, poi una piramide di sabbia rossa, accarezzata dal Nilo. Ogni delta si sovrapponeva, un sogno dentro un sogno, e la diga era il cuore pulsante che li univa tutti.
“È lo stesso fiume,” disse Lila, accendendo una sigaretta che non bruciava, ma emanava luce, come una lucciola intrappolata. “Il Mississippi, il Crati, il Mekong, il Nilo… scorrono tutti nello stesso sangue.” Il fumo si alzò, disegnando spirali che divennero costellazioni, e ogni costellazione era un delta, ogni stella un desiderio mai espresso. Guidammo, o forse fluttuammo, lungo una strada che ora era un mosaico di tutte le strade. La Highway 61 si intrecciava con la 106, ma anche con sentieri di terra battuta lungo il Mekong, dove le risaie riflettevano un cielo di giada, e con piste polverose del Nilo, dove le ombre delle piramidi danzavano al tramonto. La Pontiac non era più un’auto, ma una zattera, una feluca, un sogno che ci portava attraverso i delta del mondo. Passammo un cartello, scritto in una lingua che non conoscevamo ma capivamo: “Pentitevi, la fine è vicina”. Lila rise, e la sua risata si trasformò in un volo di aironi che si alzò sopra il Mekong. “Non è la fine,” disse. “È solo un altro inizio.”
Ci fermammo, o forse il tempo si fermò per noi, davanti alla diga. Ora era un arco immenso, fatto di stelle e fango, che collegava tutti i delta. Le acque del Crati si mescolavano a quelle del Mississippi, del Mekong, del Nilo, e ogni goccia cantava una strofa di Robbie Robertson: We had dreams when the night was young… Sopra la diga, figure eteree danzavano. C’era Robert Johnson, con la sua chitarra che piangeva blues, accanto a una donna con un tamburello, i piedi che battevano una tarantella. Più in là, un monaco del Mekong suonava un flauto di bambù, e una sacerdotessa del Nilo spargeva petali di loto. Erano le muse dei delta, o forse erano noi, riflessi in uno specchio di stelle. Lila si sdraiò sull’erba, che ora era canna, poi papiro, poi cotone. “Cosa manca?” chiesi, la voce che si perdeva nel canto delle acque. Lei chiuse gli occhi, e il suo respiro divenne il vento che accarezzava i delta. “Manca il coraggio di perdersi,” disse. “Di lasciare che i fiumi ci portino dove vogliono.”
Le stelle si abbassarono, o forse fummo noi a salire. Ci trovammo sopra la diga, sospesi tra cielo e acqua. Sotto di noi, i delta si spalancavano come ventagli: il Mississippi, con i suoi juke joint e le sue promesse spezzate; il Crati, con le rovine di Sybaris che sussurravano di decadenza; il Mekong, con le sue risaie che cantavano di resilienza; il Nilo, con le sue piramidi che custodivano il tempo. Ogni delta era un sogno, ogni sogno una notte giovane. E noi, in quella notte, eravamo poeti, amanti, viandanti.
Un uomo senza volto, con un cappello di paglia e una cetra, apparve accanto a noi. Cantò, e la sua voce era il suono di tutti i fiumi: Get your heart beating in the right direction… Lila mi prese la mano, e le sue dita erano fredde come il Crati, calde come il Nilo. “Abbracciamo il mistero,” sussurrò. E così facemmo. Ci lasciammo cadere, o forse volare, dentro il cuore della diga, dove i fiumi si univano in un unico canto. Quando l’alba arrivò, o forse era solo un altro sogno, eravamo di nuovo sulla Pontiac. La strada davanti a noi era la 61, la 106, un sentiero del Mekong, una pista del Nilo. Non importava. Le stelle, sopra di noi, continuavano a sussurrare, e i delta cantavano. Eravamo giovani, non di età, ma di cuore. E la notte, quella notte, non sarebbe mai finita.
INTRAPPOLATI A FIRMO COI BLUES DI TARSIA ANCORA
******** Una storia di Dario Greco *********
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