Good As I Been to You, Nebraska e Real Gone: il cuore nudo dell'America


Into the Great Wide Open: il cuore nudo della canzone americana d'autore

Nel cuore inquieto dell’America del dopoguerra, quando le strade sembravano spalancarsi come promesse e le città ribollivano di un’energia nuova e irriducibile, tre artisti emersero come voci imprescindibili di un Paese che cercava ancora di capire se stesso. Bob Dylan, Tom Waits e Bruce Springsteen non appartengono alla Beat Generation per collocazione anagrafica o cronologica, eppure ne sono figli spirituali. Nel loro modo di raccontare il mondo, negli angoli che scelgono di illuminare, nelle ferite che provano a rimarginare cantando, aleggia la stessa fame di libertà che animò Jack Kerouac mentre riempiva di parole i taccuini consumati dei suoi viaggi. È come se ogni chilometro percorso dal protagonista di On the Road avesse a un certo punto deviato verso le loro canzoni e lì si fosse fermato, trovando finalmente una casa.

Kerouac, con il suo stile febbrile e viscerale, insegnò che la vita non va soltanto osservata, ma attraversata. Dylan raccolse questa lezione e la trasformò in un linguaggio nuovo, capace di far saltare in aria le convenzioni della canzone folk. Springsteen la prese e la restituì sotto forma di epica operaia, un cinema di asfalto e sudore in cui ogni individuo, anche il più dimenticato, conserva una scintilla di grandezza. Waits, invece, la distillò in visioni notturne, in preghiere sussurrate dagli ultimi, in un’America marginale che pure risuona della stessa inquietudine romantica che agitava i beat.

Ciò che li unisce non è soltanto un immaginario comune, fatto di highways, motel sgangherati e cieli che sembrano non finire mai, ma un sentimento più profondo, quasi una fede laica nel racconto come strumento di salvezza. Per tutti loro la musica è un modo per rimettere ordine nel caos, per afferrare un pezzo di verità prima che svanisca nell’aria, per dare un nome al dolore e alla speranza. E mentre Kerouac seguiva le sue strade come un pellegrino dell’assoluto, questi tre cantautori hanno preso quell’eredità e l’hanno trasformata in canzoni che ancora oggi ci ricordano quanto sia prezioso e fragile il fatto stesso di essere vivi.

E forse è proprio da questa eredità comune, da quell’America errante e febbrile che Dylan, Waits e Springsteen hanno respirato attraverso le pagine di Kerouac, che nasce il filo segreto che unisce le loro opere più spoglie, più vulnerabili, più radicali. Perché se l’introduzione alla loro poetica nasce sulle strade infinite di On the Road, il punto di approdo sono quei momenti in cui ciascuno di loro decide di tornare all’origine, di scarnificare la forma, di guardarsi dentro senza protezioni. È qui, nel gesto del ridurre, del levare, del rimanere soli davanti alla propria voce, che si rivela il vero lascito della Beat Generation: il coraggio di affidarsi al viaggio anche quando il viaggio non porta da nessuna parte tranne che dentro se stessi.

Ci sono tre dischi che sembrano provenire da tre universi lontanissimi, eppure quando li metti in dialogo rivelano la stessa urgenza: tornare all’osso della propria identità per poter ripartire. Good As I Been to You di Bob Dylan, Real Gone di Tom Waits e Nebraska di Bruce Springsteen non si assomigliano in nulla sul piano sonoro, e forse proprio per questo finiscono per raccontare la stessa storia. Una storia fatta di ritorni, di spoliazioni, e soprattutto di una lotta quasi spirituale con la forma canzone.

Dylan nel 1992 è un uomo stanco, disorientato artisticamente, abituato ormai a non sorprendere più nessuno. È in piena fase di transizione ma non ha ancora trovato una direzione. Ed è proprio in questo momento che decide di fare la cosa più radicale: togliere tutto.

Tom Waits, al contrario, arriva a Real Gone nel 2004 come un uomo nel pieno della propria forza creativa, ma con la necessità di sfondare i confini che lui stesso ha contribuito a costruire. Dopo un decennio in cui ha reinventato l’idea di blues e di canto, Waits sceglie di radicalizzarsi: niente pianoforte (per la prima volta), ritmi fatti col corpo, beatbox, percussioni che sembrano uscire da un’officina e non da uno studio.

E poi c’è Springsteen con Nebraska, un disco che riesce a usare il silenzio come strumento politico. Nel 1982 Springsteen è reduce dall’esplosione di The River e di una fama che rischia di soffocarlo. Quando registra i demo di Nebraska nella sua casa di Colts Neck, lo fa senza pensare che quelle registrazioni diventeranno un disco. Sono appunti, bozze, schizzi. Ma la potenza di quella nudità è tale che qualsiasi tentativo di “vestirli” elettricamente fa perdere la forza originaria.

Mettendo insieme questi tre dischi, emerge una costellazione inattesa. Dylan che torna alla tradizione per ritrovarsi, Waits che trasforma il proprio corpo in uno strumento ritmico e Springsteen che usa la sottrazione come gesto politico. Sono tre modi diversi di dire la stessa cosa: la musica, quando è vera, nasce nel momento in cui qualcosa viene tolto. L’eccesso, la sovrastruttura, l’apparato tecnico: tutto questo può diventare una maschera. E allora c’è un punto in cui gli artisti sentono il bisogno di rientrare nel proprio centro espressivo, spogliandosi fino a rimanere quasi nudi.

Good As I Been to You, Real Gone e Nebraska funzionano come tre fasi di una parabola creativa. Dylan ci ricorda il valore dell’eredità, Waits il valore del corpo, Springsteen il valore del silenzio. Tre elementi che, combinati, costruiscono un’idea di musica americana non come tradizione immobile, ma come continua reinvenzione. Una musica che non ha paura di fare un passo indietro per farne due avanti, che non teme il buio della stanza in cui tutto è registrato con un microfono solo, né la ruvidezza di un ritmo battuto con le nocche sul tavolo.

Forse è questo il vero punto di contatto tra i tre album: il modo in cui ciascuno di essi trasforma una crisi in un’opportunità estetica. Dylan risponde al disorientamento tornando a una purezza dimenticata. Waits risponde alla stasi spingendo il proprio linguaggio oltre il limite. Springsteen risponde al successo esagerato con un’intimità disarmante. Tutti e tre, ciascuno a modo suo, cercano un nuovo inizio. E lo trovano non aggiungendo, ma togliendo.

Alcuni dischi non sono altro che capitoli di un grande romanzo americano, in corso d'opera. Si tratta sovente di location dove l’artista si ferma per guardarsi attorno, per capire che l’immagine riflessa non coincide più con il nome stampato sulla copertina. Good As I Been to You appartiene a questa categoria rarefatta e segreta, perché è un disco che nasce come se non dovesse nascere: quasi per errore, quasi di nascosto, come un taccuino trovato sotto un letto. Siamo nel 1992, la voce di Dylan è una corda logora, l’ispirazione annaspa, i concerti – già allora interminabili – si sorreggono più sull’aura che sui risultati. Eppure, proprio in quel momento di disordine, Dylan fa la cosa più sovversiva possibile: se ne va da solo in studio e registra un disco di folk tradizionali come se fosse ancora un ragazzo del Greenwich Village che prova a farsi notare tra il rumore delle posate al Gaslight Café.

La magia di Good As I Been to You è tutta nella sua imperfezione. Dylan attacca i brani con quel suo modo sghembo e irregolare, dimentica passaggi, inventa accenti, sposta l’asse delle canzoni come un muratore che costruisce un muro mentre lo attraversa. Non c’è alcuna intenzione di fedeltà filologica: quello che conta è l’urgenza, il respiro, l’istinto. Sembra quasi che Dylan voglia mettere le mani nel pozzo dove affondano le radici della sua stessa storia, non per ripeterla, ma per capirla di nuovo. In quelle ballate tradizionali c’è l’eco del folk che lo ha formato, ma c’è anche un uomo che, dopo anni di deriva, torna a parlarsi. La voce è abrasiva, a volte spezzata, eppure proprio per questo è autentica, viva, degna di essere creduta.

Ascoltare Good As I Been to You significa entrare nella stanza dove Dylan sta rinegoziando la propria identità. Le canzoni sembrano dirci: “Ecco da dove vengo, ecco da dove ricomincio”. Non è un disco che prova a conquistare nessuno. Non vuole convincere, non vuole stupire. È un disco che respira piano, che avanza a passi piccoli e misurati, che si concede la grazia dell’essenzialità. La chitarra è ruvida, accordata come viene, microfonata senza fronzoli. La voce è un animale ferito che però non smette di camminare.

E proprio in questo stare a metà tra l’inciampo e la rinascita, Good As I Been to You diventa un ponte. È il disco che prepara la strada alla futura resurrezione, alla grande Trilogia che partirà da Time Out of Mind e cambierà per sempre il modo di percepire il Dylan maturo. È il momento in cui la polvere torna a essere fertilità, la stanchezza torna a essere stile. Un Dylan che suona folk nel 1992 non è un gesto nostalgico, è un gesto di sopravvivenza. È l’atto silenzioso con cui un gigante della musica americana ammette di essere fragile, e proprio per questo ritrova la forza per andare avanti.

Se Good As I Been to You è un ritorno alle radici, Real Gone è un terremoto. Non c’è altro modo per descrivere un disco che sembra registrato dentro una fucina, tra ferri incandescenti e catrame che sobbolle. Tom Waits nel 2004 è già diventato un personaggio mitologico: metà poeta da barile, metà sciamano industriale. Ma con Real Gone decide di spingersi oltre, di smontare il proprio vocabolario sonoro fino a ridurlo a pura energia muscolare. È un disco che non si ascolta con le orecchie: si percepisce con le ossa, con lo stomaco, con la gola.

La scelta di escludere il pianoforte – lo strumento che per decenni aveva definito la sua silhouette sonora – non è un dettaglio: è un giuramento di guerra. Waits vuole tornare al corpo, alla materia grezza della percussione primitiva. La sua voce non è più soltanto un medium: diventa un tamburo, una vampa, un utensile da scavo. I beat sono ottenuti picchiando superfici improbabili, trasformando scatole, pareti, tubi e persino il proprio torace in strumenti. Ci sono momenti in cui si sente quasi l’odore di un’officina. È come se Real Gone volesse dimostrare che la musica può essere creata senza musica, che basta un ritmo per evocare un mondo.

Eppure, dentro questa ruvidezza animalesca, Waits trova anche un lirismo disperato, un romanticismo sporco che emerge tra le crepe. Brani come Sins of the Father o Hoist That Rag sembrano cantati da un predicatore ubriaco su un carro che attraversa una città fantasma. Le storie raccontate sono piene di ombre, di personaggi ai margini, di destini minori che prendono fuoco per un istante e poi svaniscono. Waits non giudica, non eleva, non consola: registra. Racconta. E lo fa come uno scrittore di strada che incide parole su un muro.

C’è qualcosa di biblico in questo disco. Non nel senso della religione, ma della forma: Real Gone sembra un antico libro di leggi rotto in due, con pagine mancanti, versi cancellati, altre rigenerate da un impeto improvviso. È un’opera che punta tutto sulla terra, sul fango, sulla materia, e proprio lì trova una trascendenza nuova. L’assenza di raffinamento diventa una forma di poesia. È come se Waits dicesse: “Non ho bisogno dell’ornamento, ho bisogno del sangue che scorre sotto”.

Quando Real Gone si chiude, si ha la sensazione di aver assistito a una liturgia fisica, a un rito laico e selvaggio. È Waits che prende la musica americana, la scuote, la sbatte contro il muro e le chiede di dirgli la verità. E la verità, in questo caso, è una sola: la musica è un corpo. E questo disco è la sua radiografia più violenta e più libera.

Nebraska è un disco che sembra fatto di vento, di neve e di silenzi lunghi. Quando Springsteen lo registra nel 1982, non ha in mente un album: ha in mente la verità. Suona da solo, senza band, senza produttori invadenti, con un registratore a quattro piste appoggiato su un tavolo. Sono demo, appunti, tentativi. Eppure, in quella precarietà, Springsteen trova un linguaggio che nessun arrangiamento orchestrale avrebbe potuto replicare. Perché Nebraska non è un disco: è una confessione.

Le canzoni sono racconti da motel, storie di sconfitti, di uomini qualunque che guardano l’abisso e scoprono che l’abisso li guarda a sua volta. Springsteen indossa la voce come una giacca logora, e mantiene un tono quasi bisbigliato, come se non volesse disturbare le vite che sta raccontando. Non c’è eroismo, non c’è la grandeur della E Street Band: c’è un’America che vive negli spazi tra una bolletta non pagata e una pistola nascosta in un cassetto. È un mondo che non entra nelle prime pagine, ma che pesa come una pietra nella coscienza collettiva.

Il minimalismo di Nebraska non è estetica: è politica. Non proclama, non denuncia, non marcia. Fa qualcosa di più semplice e più devastante: mostra. Mostra l’altra faccia del sogno americano, quella dove gli uomini non vincono, non si salvano, non corrono verso un orizzonte. Mostra un Paese ferito, sorretto da individui che cercano di sopravvivere a ciò che non si può cambiare. Springsteen non propone soluzioni: offre attenzione, un’attenzione radicale e spoglia. E questa attenzione diventa il suo modo di schierarsi.

Il suono è fatto di niente: una chitarra acustica, una voce registrata in una camera ordinaria, e una manciata di battiti più vicini al respiro che al ritmo. È proprio questa assenza, questo sottrarre, che rende il disco così potente. Come se ogni nota fosse una lampadina che tremola, come se ogni verso fosse pronunciato da un uomo che ha paura di perdere tutto. E lo fa con un pudore disarmante. La grandezza di Nebraska sta nel non cercare mai la grandezza. Nel non cercare di impressionare, di convincere, di stupire. Springsteen sa che la verità non ha bisogno di amplificazione.

Ascoltare Nebraska significa entrare in un’America che non parla, ma sospira. Che non spiega, ma mostra. È un disco che non ti prende per mano: ti mette davanti a una finestra e ti dice “Guarda”. E in quello sguardo c’è tutto ciò che serve: la fragilità, la colpa, l’ingiustizia, la speranza sottile e intermittente come una luce lontana. Nebraska è il disco più coraggioso di Springsteen perché è il più vulnerabile. Perché rinuncia a ogni potenza esterna e affida tutto alla verità della voce e della storia.

Mettere insieme Good As I Been to You, Real Gone e Nebraska significa osservare tre momenti in cui la musica americana decide di guardarsi allo specchio senza maschere. Sono dischi che non chiedono nulla se non la disponibilità ad ascoltare l’essenziale. Tre opere che non offrono spettacolo, ma esperienza. Non promettono trionfi, ma rivelazioni. E proprio per questo, quando li si ascolta uno dopo l’altro, succede qualcosa di particolare: è come trovarsi nel mezzo di una notte americana, una notte dove ogni artista tiene accesa solo una piccola lampada e ci invita a sedere.

Dylan, Waits e Springsteen parlano lingue diverse, ma in questi tre dischi condividono lo stesso atto di coraggio: togliere. Togliere l’orchestra, togliere la band, togliere la certezza. Tornare al corpo, alla voce, alla corda pizzicata, all’alito che si condensa sul microfono. La musica diventa un gesto primario, un ritorno a ciò che si è prima di essere un’icona. È come se questi artisti avessero lasciato fuori dallo studio la loro storia, il loro pubblico, le loro aspettative, e si fossero presentati nudi, vulnerabili, pronti a dire la verità con la voce che avevano quel giorno, né più né meno.

E in questo incontro immaginario, ognuno porta un simbolo. Dylan porta la memoria, quella tradizione folk che è più una geografia dell’anima che un repertorio. Waits porta il corpo, quella percussione carnale che trasforma la musica in un atto fisico. Springsteen porta il silenzio, quello spazio vuoto che permette alle storie di respirare. Memoria, corpo, silenzio: tre coordinate per una mappa che non indica una destinazione, ma un modo di camminare.

Alla fine, ciò che rimane è un sentimento quasi struggente: l’idea che la musica più grande nasca sempre quando l’artista si toglie qualcosa. Quando lascia cadere un peso. Quando accetta la fragilità come condizione necessaria per creare. Good As I Been to You, Real Gone e Nebraska sono tre prove diverse dello stesso miracolo: l’arte non si trova nell’eccesso, ma nel vuoto che lasciamo affinché qualcosa possa risuonare.

Sono dischi che non cercano la gloria, semmai sono alla ricerca di verità. Ma non siamo sicuri che questi autori e questi lavori l'abbiano ancora trovata. La risposta soffia nella musica, parafrasando il menestrello del Midwest!

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