Richard Price e l’epica suburbana di The Wanderers
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Rileggere un grande romanzo americano attraverso lo sguardo cinematografico
Quando The Wanderers apparve nel 1974, Richard Price aveva appena vent’anni. Era un ragazzo del Bronx che stava imparando a scrivere, osservando il mondo come si impara un dialetto: frequentandolo ogni giorno. Quel mondo era fatto di strade, palazzi popolari, bande adolescenziali, violenza casuale, rituali di quartiere, famiglia, scuola, e una geografia emotiva che gli adolescenti di Price sapevano leggere con la precisione di cartografi. Il romanzo, oggi considerato un classico minore ma imprescindibile della narrativa americana del secondo Novecento, è molto più di un libro sulle gang giovanili: è un documento sociologico vivente, un pezzo di antropologia popolare, una capsula di memoria incandescente che racconta l’America pre-Beatles, pre-Vietnam, pre-sogno infranto.
Come molti testi usciti in quel decennio, il suo respiro letterario è profondamente cinematografico. È impossibile non leggerlo e pensare, per affinità di sguardo e di tono, al cinema di Martin Scorsese, al naturalismo urbano di Brian De Palma o alla furia visiva del primo cinema della East Coast. La New York degli anni Sessanta e Settanta, quella che Price ricostruisce e quella che il cinema americano contemporaneo immortala, era ancora una città in bilico: sporca, pericolosa, febbrile, piena di vita e di attribuzioni simboliche. E The Wanderers è uno dei suoi romanzi-simbolo.
Identità, rabbia e iniziazione nella New York pre-’68
The Wanderers è ambientato nel 1962, ma già guarda alla decade successiva con un senso di smarrimento adulto. Gli Stati Uniti non sono ancora esplosi nel conflitto generazionale che segnerà gli anni Sessanta, ma le tensioni sono lì, appena sotto la superficie, e Price le mette in scena attraverso gli occhi di ragazzi tra i 16 e i 18 anni che vivono l’adolescenza come un territorio ostile, un deserto da attraversare.
Le bande del romanzo – gli Wanderers italo-americani, gli skin del quartiere, i “Fordham Baldies”, i thailandesi, i riflessi vagamente grotteschi delle minoranze etniche in conflitto – non sono semplicemente gruppi violenti. Sono comunità identitarie in un mondo che non offre altro che appartenenza come unica forma possibile di salvezza. Le gerarchie sono rigide, le prove di forza costanti, e la violenza è un linguaggio: brutale, sì, ma codificato. È un modo di muoversi nel mondo, un dialetto emotivo più che un crimine.
La scrittura di Price è feroce e tenera al tempo stesso. È capace di raccontare un pestaggio come un rito di passaggio e una conversazione familiare come una battaglia psicologica. Gli insulti etnici – come “guinea”, “wop”, “spic”, “mick” – sono strumenti narrativi che definiscono non solo conflitti ma distanze culturali. L’America dell’inizio degli anni Sessanta non è ancora la società multietnica iperconsapevole che diventerà decenni dopo: è un mosaico di comunità che si osservano con sospetto, separate da pochi isolati ma da abissi storici profondi.
Price e la tradizione del realismo urbano: un fratello di Scorsese
Leggere The Wanderers significa entrare nello stesso universo sensoriale in cui Martin Scorsese ambienta film come Mean Streets (1973) o Taxi Driver (1976). La New York che Price racconta è quella dei bar di quartiere, delle feste scolastiche, dei marciapiedi come palcoscenico morale, degli angoli bui in cui la giovinezza si trasforma in sopravvivenza. È una città identitaria e conflittuale, percorsa da un'energia nervosa che Scorsese cattura con la sua macchina da presa e che Price traduce in una prosa rapida, allucinata, pulsante. Entrambi osservano il quartiere come un organismo vivente, in cui colpa, virilità ferita, bisogno di appartenenza e violenza rituale diventano la grammatica primaria del quotidiano.
Il romanzo dialoga con il cinema scorsesiano soprattutto per come costruisce i personaggi: Price non giudica mai i suoi ragazzi. Non li santifica, non li condanna, non li perdona. Li osserva in tutta la loro ambiguità, nella loro comicità involontaria, nella loro violenza stupidamente rituale. È la stessa prospettiva di Mean Streets, dove gli amici del quartiere sono allo stesso tempo buffoni, tragici, crudeli, irrimediabilmente prigionieri di loro stessi.
Il legame tra Price e Scorsese non è soltanto estetico: diventerà anche professionale. Negli anni successivi, infatti, Price firmerà due sceneggiature legate direttamente a quell’universo cinematografico. La prima è Il colore dei soldi (1986), film diretto proprio da Scorsese, dove la sua scrittura si intreccia alla riflessione scorsesiana su potere, talento e autodistruzione. La seconda è Clockers (1995), tratto dal suo romanzo omonimo: un progetto prodotto da Scorsese e poi passato alla regia di Spike Lee, ma ancora permeato dal suo sguardo e dalle sue ossessioni morali. Due film che partono da script di Richard Price, confermando quanto il suo realismo narrativo fosse destinato, quasi inevitabilmente, a trovare spazio in quel cinema urbano e febbrile che Scorsese aveva reso un linguaggio.
Anche Brian De Palma – in particolare quello di Greetings o Hi, Mom! – è un riferimento naturale. Quel cinema low-budget, girato nei quartieri, abitato da giovani attori sconosciuti, è l’equivalente filmico del romanzo di Price: un realismo nervoso, immediato, che fa della geografia urbana un personaggio vivo.
Il romanzo come documento antropologico
A rendere The Wanderers un’opera ancora attuale è la sua dimensione antropologica. Price non costruisce solo una trama: ricostruisce un ecosistema. Le famiglie italo-americane, le madri invadenti, i padri autoritari e quasi caricaturali, le regole non scritte del quartiere, la sessualità acerba e confusa, la scuola come teatro di ruoli sociali e gerarchie. Tutto questo è raccontato con una precisione microscopica, ma senza mai cadere nella nostalgia.
Il grande merito di Price è aver fissato un momento storico che non esiste più. La New York che descrive è ancora una città di migranti, fatta di enclave etniche impermeabili, di rabbia compressa e di sogni di ascesa sociale che si infrangono alla prima occasione. Il romanzo funziona come una capsula temporale perché mostra una società in cui l’adolescenza non è una fase ma un campo di battaglia: chi ci entra ne esce ferito, segnato, oppure completamente trasformato.
C’è un senso di perdita anche nelle parti più comiche o grottesche del libro. I Wanderers sono ragazzi che stanno per essere risucchiati dall’America dei grandi: il Vietnam incombe, la musica sta per cambiare, la politica esploderà nel giro di tre o quattro anni. Price cattura quell’ultimo respiro dell’innocenza, o meglio dell’illusione di essere invincibili, che caratterizza molti racconti americani ma raramente con questa lucidità.
Dal libro allo schermo: The Wanderers e The Warriors
Il dialogo con il cinema diventa ancora più interessante se si mette The Wanderers in rapporto con The Warriors di Walter Hill, uscito nel 1979. I due mondi sono paralleli e complementari. Se Price racconta le bande dal punto di vista antropologico e realistico, Hill le trasforma in mitologia urbana. The Warriors non è il Bronx reale ma il Bronx epico, rituale, quasi fumettistico, dove ogni gang diventa una tribù e ogni quartiere un territorio sacro.
Eppure, sotto questo strato di iper-stilizzazione, l’ossatura narrativa è condivisa. Entrambi i testi raccontano la città come un labirinto, un campo di battaglia in cui i giovani combattono per un’identità che la società adulta non è in grado di offrire loro. Entrambi mostrano come le bande non siano semplicemente gruppi criminali, ma microcosmi culturali, forme primitive di comunità in una società che ha già iniziato a disgregarsi.
Il film The Wanderers di Philip Kaufman (1979) resta più fedele allo spirito del romanzo, mantenendo la dimensione tragicomica, grottesca, sentimentale e al tempo stesso feroce della scrittura di Price. Ma è The Warriors a dialogare più potentemente con il clima emotivo del libro: un misto di angoscia, energia vitale, paura del futuro e nostalgia per un presente che sta già sfumando.
Un romanzo di formazione senza redenzione
La forza di The Wanderers sta anche nel suo rifiuto di un vero percorso di crescita. Nessuno dei personaggi diventa un adulto migliore: al massimo diventa più cinico, più consapevole della propria vulnerabilità. Il romanzo di formazione tradizionale prevede una traiettoria verso la maturità; Price, invece, mostra come l’adolescenza sia una somma di traumi, piccole vittorie inconsistenti e compromessi.
Ciò lo avvicina di nuovo ai mondi cinematografici degli anni Settanta, dove l’eroe spesso non trova redenzione. Pensiamo a Taxi Driver, a Dog Day Afternoon, a Mean Streets: la vita urbana non è un percorso ascensionale, ma una spirale. Anche i ragazzi di Price sono intrappolati in questa spirale. L’America che li aspetta non è un sogno da inseguire: è un confine che li spaventa.
Eppure, il romanzo non è mai cupo. È pieno di azione, di dialoghi fulminanti, di umorismo improvviso, di follia adolescenziale. È un libro rumoroso, pieno di musica, partite improvvisate, scherzi crudeli, amori confusi, piccoli momenti di grazia. È un libro che contiene l’energia di una band garage di quartiere: imperfetto, grezzo, ma pulsante.
Perché The Wanderers è ancora un grande romanzo americano
A cinquant’anni dalla pubblicazione, The Wanderers resta un’opera importante per vari motivi:
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La sua resa linguistica. Price cattura il parlato di strada come pochi scrittori americani.
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La capacità di documentare un’epoca senza idealizzarla né demonizzarla.
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Lo sguardo sociologico sulle comunità etniche, le tensioni razziali e la costruzione dell’identità.
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La connessione con un’epoca cinematografica irripetibile, quella della New Hollywood, del realismo urbano e della furia stilistica degli anni Settanta.
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L'energia narrativa: è un romanzo vivo, viscerale, ancora capace di parlare ai lettori contemporanei.
Il romanzo rappresenta l’America prima dello shock culturale degli anni Sessanta: un Paese in bilico, popolato da ragazzi che non sanno di vivere in un momento storico che sta per esplodere. È questo senso di sospensione che lo rende unico.
The Wanderers di Richard Price è un romanzo che appartiene a un’epoca e allo stesso tempo la trascende. È una lente attraverso cui rileggere il cinema newyorkese degli anni Settanta, una cassa di risonanza delle tensioni etniche dell’America urbana, un documento di antropologia popolare e una grande storia di adolescenti sperduti. È il fratello letterario di Mean Streets, il cugino realistico di The Warriors, l’eco narrativa di una New York che non esiste più ma che continua a vibrare nella memoria collettiva.
Rileggerlo oggi significa ritornare in quelle strade, sentire il rumore dei motorini, i dialoghi sporchi e vivi, la musica rock che comincia a cambiare il mondo, e guardare negli occhi una generazione che, senza saperlo, stava salutando per sempre la propria innocenza.
The Wanderers si apre con Listen to the Lion di Van Morrison, e non è un caso, non è un dettaglio da fan, non è un vezzo da collezionista. È una dichiarazione d’intenti, un’invocazione. Perché quel brano è un ruggito interiore, un’esplosione di identità che tenta di emergere dalla confusione del mondo, proprio come i ragazzi di Price. Morrison canta di un leone che vuole liberarsi, e in quelle note c’è lo stesso tremore che attraversa i Wanderers quando capiscono che l’adolescenza non è un parcheggio ma una porta socchiusa verso un universo spaventoso. Ecco, rileggendo oggi questo romanzo straordinario, sembra di ascoltarlo quel leone, ancora vivo sotto la superficie del tempo, mentre ci ricorda che crescere significa fare i conti con la propria voce, con il proprio respiro, con la propria fame. E che certe storie, certi quartieri, certi ragazzi continuano a ruggire anche quarant’anni dopo, se solo abbiamo il coraggio di tendere l’orecchio.
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