Neil Young, il sogno elettrico di un’anima inquieta

Una monografia su Neil Young ispirata alla sua autobiografia Il sogno di un hippie e ai ricordi di un’estate del 2017. Un racconto personale, poetico e musicale su un artista che a ottant’anni resta un ribelle senza fine.

Ci sono artisti che seguono il tempo, e altri che lo attraversano come se non esistesse. Neil Young appartiene da sempre alla seconda categoria: un viandante del suono, un cercatore di verità che non si lascia mai addomesticare. Nella sua autobiografia Il sogno di un hippie scrive: “Non ho mai voluto una carriera, ho sempre cercato un viaggio.” Una frase che basta da sola a spiegare la traiettoria di un artista che ha preferito la deriva alla sicurezza, la sperimentazione alla fama, l’urgenza alla misura.

Leggere Il sogno di un hippie non è come leggere un libro di memorie: è come ascoltare un disco di Neil Young. Si sentono i silenzi, gli scatti di rabbia, i cambi di tono, gli accordi sbilenchi e le confessioni sincere. Adesso che l’ho quasi terminato, posso dire di uscirne emotivamente e spiritualmente arricchito. Era da tempo che non leggevo qualcosa di così vero, sincero e appassionato. In quelle pagine, Neil apre la porta del suo ranch, della sua mente e del suo cuore, mostrando con un linguaggio semplice ciò che la sua musica suggerisce da decenni: la vita è un atto fragile e ribelle, e la chitarra è solo uno dei modi per tenerla accesa.

La sua voce, graffiata e tremante, sembra la voce della terra stessa. Young racconta la giovinezza canadese, i Buffalo Springfield, l’arrivo a Los Angeles e la scoperta di un’America che non era più innocente. Parla di malattie, figli, amori finiti, automobili elettriche e vecchi amici perduti come se tutto facesse parte della stessa lunga canzone. E in fondo lo è: perché la vita di Neil Young è un unico brano, un flusso continuo che non ha bisogno di un ritornello per ricordarti chi sei.

Ricordi di un’estate

Aspettammo che il sole scendesse prima di uscire di casa. Il caldo durante quell’estate era quasi insopportabile, di giorno ma anche alla sera. Era un po’ come stesse per arrivare la fine del mondo, o meglio l’inizio della fine. Però c’era una radio che se ne fregava e suonava molto forte un pezzo rock. Come dice Dylan, c’è solo un artista che suona così forte, quando alzi al massimo il volume dello stereo e dell’emotività.

C’è una chitarra indomita, una sezione ritmica recalcitrante che tira dritta. Basta prestare attenzione, mentre ti giri una sigaretta artigianale: Neil Young è l’imperatore di questo oscuro sogno che stiamo vivendo e attraversando. Un vecchio pazzo che ancora riesce a comunicare meglio di chiunque altro il vero senso della musica, per una generazione perduta di bambini sognanti e di ragazze che sembrano aver smesso di crederci.

Ma non importa. C’è il vecchio pazzo Neil a farlo per noi, a suonare la sua chitarra a un volume spropositato, perché serve energia, serve passione, serve una camicia di flanella su cui asciugare lacrime e sudore. Il rock, nella migliore delle ipotesi, è una musica imperfetta per gente scoppiata che cerca di condensare in un riff di chitarra il senso del vero, della propria vita. Ci si può ritrovare a bagnarsi in un fiume malvagio o a dormire con angeli caduti. L’importante è sentire ancora una band che spinge, che ci tiene svegli al motto di Keep on Rockin’ in the Free World.

Per me Neil Young è come una radio senza paura che suona nella notte che viviamo, di giorno, nei nostri sogni e nei nostri incubi. Mi piace immaginarlo ancora oggi, sotto la veranda, con una chitarra e qualcosa da bere, mentre i suoi cani dormono accanto a lui. È l’ultimo mohicano del rock, un ufficiale della cavalleria sonora che continua a combattere.

Quella lunga estate mi fece capire che ci sono artisti che non si scelgono: accadono. Non ricordo quando ho sentito per la prima volta la sua voce, ma la canzone era Helpless, e di certo ero scalzo e faceva caldo. Da allora, Neil Young è diventato il suono stesso delle mie stagioni. Ogni volta che torno a Harvest, Heart of Gold o For the Turnstiles, ritrovo quel battito primordiale, quella nostalgia che non si può spiegare.

L’essenza demolitrice del sogno

Il sogno di Neil Young è una forza che distrugge e ricrea, come un incendio che purifica. La sua potenza demolitrice è ciò che lo rende unico: è un detonatore tonico, un succo di frutta acido che ti disseta e ti inchioda in un’estate senza pioggia. È una primavera dell’anima che non osa cedere alla ruggine dell’autunno.

E anche se il poeta ha scelto ottobre, il bardo usa ancora le note umide del sudore per suonare una steel guitar che apostrofa le onde del cuore in una torrida giornata di agosto. Il tempo è presente, immobile come un sole allo zenit. Lì, dove la connessione 3G latita, la chitarra gentile di Mike, Neil e George mi fa compagnia. Non c’è motivo per essere tristi, perché domani sarà ancora festa, e ci sarà un altro motivo per sperare.

Nel ranch dell’Ontario, il fuoco si sta spegnendo. La mano invoca il riposo del guerriero che ha passato la notte a squarciare sé stesso, a mettere a nudo la sua anima errante. In fondo, come scrive nel libro, “la musica è un modo per restare vivi anche quando non ci riesci con le parole.”

Eppure Neil non smette mai di denunciare la decadenza dell’uomo moderno, la distruzione del pianeta, l’avidità che trasforma i laghi in deserti. “Hanno vinto i cattivi,” sembra dire con la sua chitarra, “ma io sto ancora qui a suonare.” E allora anch’io resto, perché è questo il patto implicito tra chi scrive e chi ascolta: resistere attraverso la musica.

Il rock and roll, come lui insegna, non ha bisogno di tovaglie e posate. È un coltello a serramanico che squarcia la pelle e la mente. È autentico, non posato, e non ha nulla a che vedere con i soldi. Il resto, come scriveva in Il sogno di un hippie, “sono solo cazzate.” Il rock è vento, pioggia, fuoco — un demone e un fardello, che brucia da entrambi i lati e che nessuno può portare a lungo senza scottarsi.

Gli ottant’anni di Neil Young e la fiamma che non si spegne

Oggi Neil Young ha ottant’anni, eppure non sembra aver rallentato. Continua a incidere dischi, a suonare dal vivo, a parlare del mondo come di un organismo ferito ma ancora vivo. Dischi come Barn e World Record mostrano un artista invecchiato solo nel corpo, non nello spirito. La sua voce è più fragile, certo, ma dentro ogni crepa c’è la stessa elettricità che attraversava Zuma o Rust Never Sleeps.

Guardandolo oggi, si ha la sensazione che Neil Young non abbia mai smesso di cercare. È come se, a ogni brano, tornasse a interrogarsi sul significato stesso del suonare. Non cerca la perfezione, ma la verità. Non cerca l’immortalità, ma la vita.

Durante un recente concerto ha detto: “Finché sentirò il battito sotto le dita, continuerò a suonare.” È una promessa e una preghiera insieme. A ottant’anni, Neil Young resta l’esempio vivente di un’arte che non si lascia addomesticare, di una fiamma che non si spegne, anche quando il vento cambia direzione.

Forse è questo, in fondo, il suo sogno più grande: non essere eterno, ma continuare a bruciare. E mentre la notte si allunga sul Great Slave Lake e il mondo sembra spegnersi, la sua voce ritorna, roca e limpida, a ricordarci che il rock and roll — come la verità — non muore mai.

“I bei tempi stanno arrivando, lo sento dire dappertutto. I bei tempi stanno arrivando, certo che se la stanno prendendo comoda.” (Neil Young)


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