Malvito Grunge Fest: la leggenda dei Peperoncini Sporchi

Malvito Grunge Fest: la leggenda dei Peperoncini Sporchi


Siamo nel 1992-93 in provincia di Cosenza, precisamente a Mottafollone. Qui, tra vicoli senza età e la campagna che è ancora una risorsa per molti, la modernità arriva a singhiozzo, sotto forma di cassette pirata, jeans bucati e un’eco lontana di Seattle, dove il grunge sta esplodendo con Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains e Screaming Trees. Ma non è solo il grunge a fare breccia: in Italia, band come i Negazione e i CCCP – Fedeli alla Linea stanno portando il punk rock a un livello di ribellione grottesca, con testi che mescolano anarchia, ironia e un’amore viscerale per il caos. E in questo triangolo di paesi calabresi, un gruppo di disadattati decide di unire grunge e punk in un’esplosione di sudore, soppressata e amplificatori scassati.

Mimmo “Kurt” Caputo, un ventenne di Mottafollone con i capelli unti che sembrano un nido di gazze e una camicia a scacchi che puzza di pecorino, è il leader visionario dei Peperoncini Sporchi. Mimmo è un sognatore incazzato: odia il fatto che l’unico futuro che gli offrono sia raccogliere olive o fare il geometra, e passa le giornate strimpellando Smells Like Teen Spirit su una chitarra scordata, urlando versi dei Negazione come “Siamo qui, siamo vivi!” con un accento che fa tremare i vetri. Psicologicamente, Mimmo è un vulcano di contraddizioni: da un lato, sogna di scappare a Seattle e diventare il Kurt Cobain del Sud; dall’altro, è terrorizzato dall’idea di lasciare Mottafollone, dove tutti lo conoscono e dove può ancora rubare le salsicce dalla dispensa della nonna.

Peppe “Eddie” Russo, di Sant’Agata di Esaro, è il cantante, un tipo con una voce che sembra un trattore grippato e un’ossessione per Eddie Vedder dei Pearl Jam. Peppe canta Alive trasformandolo in un “Ahi’m stìl alàiv” che farebbe piangere di gioia Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP. È un ragazzo introverso, segnato da un’infanzia in cui suo padre lo costringeva a recitare il rosario ogni sera, e trova nel grunge e nel punk una liberazione: urlare sul palco è il suo modo di sfogare anni di “Ave Maria” represse. Tonino “Layne” Greco, il batterista di Malvito, è un tornado di energia: picchia su un bidone arrugginito con una furia che ricorda Man in the Box degli Alice in Chains, ma anche il ritmo selvaggio di Nostalgia del Sudore dei Negazione. Tonino è un anarchico nato: odia ogni autorità, dal prete del paese al vigile urbano che gli ha multato il motorino, e il suo sogno è “far esplodere il sistema” – anche se per ora si limita a far esplodere i timpani di chi lo ascolta.

A gestire questo caos c’è Franco “Il Manager” Esposito, un quarantenne di Malvito con una pancia che sembra un pallone da spiaggia e un paio di baffi che sembrano usciti da un film di Bud Spencer. Franco è un ex venditore di pentole porta a porta che si è autoproclamato manager dei Peperoncini Sporchi dopo aver sentito Nevermind in un bar di Cosenza e aver deciso che “questa roba è il futuro!”. È un opportunista, ma anche un sognatore: crede davvero che i Peperoncini Sporchi possano diventare “i Nirvana della Calabria”, anche se passa più tempo a mangiare fusilli al ragù che a organizzare concerti. Psicologicamente, Franco è un misto di ingenuità e astuzia: vuole il successo, ma è anche genuinamente affezionato ai ragazzi, che considera “i figli ribelli che non ho mai avuto”. Il loro primo concerto, alla sagra del peperoncino di Malvito nel ’92, è un disastro epico. Sul palco – un carretto di legno con un’amplificatore che emette più fischi che note – i Peperoncini Sporchi attaccano con una cover di Even Flow dei Pearl Jam, ma Peppe scivola su una macchia di olio di peperoncino e finisce dritto in una pentola di trippa bollente, urlando “Ahi’m stìl alàiv!” mentre si scotta il sedere. Mimmo, nel frattempo, cerca di fare un assolo alla Kurt Cobain, ma rompe tutte le corde della chitarra, e Tonino lancia il bidone in aria, colpendo un lampione che si spegne con un botto, lasciando la piazza al buio. Il pubblico, tra risate e improperi, li caccia via: zi’ Concetta, la nonna più temuta del paese, lancia un peperoncino in testa a Franco, gridando: “Portali via, che sembrano i diavoli di Sant’Agata!”

Ma i Peperoncini Sporchi non mollano. Nel ’93, ispirati dal punk rock italiano dei CCCP, scrivono un pezzo originale, Soppressata Anarchia, un inno grottesco che mescola grunge e punk: “Soppressata nel mio cuore, anarchia nel mio motore / bruciamo il sistema, col piccante che ci preme!” cantano, mentre Franco distribuisce volantini fatti a mano con scritto “Peperoncini Sporchi – La Rivoluzione Calabrese”. Alla sagra di Mottafollone, il loro secondo concerto è un caos ancora più glorioso: Tonino suona con un osso di prosciutto rubato dalla cucina di zi’ Concetta, Peppe canta con un peperoncino in bocca per “sentire il fuoco dentro”, e Mimmo si lancia in un crowd surfing che finisce con lui atterrato su un carretto di melanzane. Ma stavolta il pubblico – i giovani del paese, stufi delle solite tarantelle – li acclama, saltando e urlando come se fossero a un concerto dei Nirvana.

 La tardiva rivalutazione dei Peperoncini Sporchi  (Seconda parte)

Flashforward al 2014. Il grunge è ormai un ricordo, ma in Italia sta nascendo un revival nostalgico, e i Peperoncini Sporchi vengono riscoperti come i capostipiti del movimento grunge-punk del Centro-Sud. Un documentario su Rai 3, intitolato Grunge al Peperoncino: La Rivoluzione Calabrese, li celebra come “i pionieri che portarono il disagio di Seattle tra le colline di Cosenza”. Mimmo, Peppe, Tonino e Franco vengono invitati a un festival alternativo a Malvito, il Malvito Grunge Fest, organizzato da hipster barbuti e ragazze con tatuaggi di lupi, che li considerano delle leggende viventi.

Mimmo, ora 43enne, ha i capelli grigi ma porta ancora la camicia a scacchi, anche se è macchiata di sugo e ha un buco sotto l’ascella. È diventato muratore, ma non ha mai smesso di suonare: la sua chitarra scordata è ancora il suo migliore amico, e ogni sera, dopo il lavoro, si chiude in garage a cantare Where Did You Sleep Last Night, sognando un mondo che non è mai arrivato. Peppe, che ora gestisce un bar a Sant’Agata, ha messo su qualche chilo ma non ha perso la sua voce da trattore: canta ancora Alive con lo stesso accento improbabile, e il grunge gli ha dato la forza di accettare se stesso, trasformando la sua timidezza in una ribellione gentile. Tonino, che lavora come meccanico a Malvito, è ancora un anarchico: ha una collezione di bidoni che considera “arte punk”, e il festival è per lui un modo per urlare al mondo che “il sistema non ci ha mai piegati!”. Franco, con i baffi ormai bianchi e un pancione che lo fa sembrare un Babbo Natale alcolizzato, è il più entusiasta: “Ve l’avevo detto che saremmo diventati famosi!” urla, mentre cerca di vendere magliette dei Peperoncini Sporchi fatte con una stampante del ’99.

Il concerto al Malvito Grunge Fest è un delirio surreale e grottesco. Il palco è decorato con peperoncini di plastica giganti e una sagoma di cartone di Kurt Cobain che tiene in mano una soppressata. I Peperoncini Sporchi salgono sul palco con i loro strumenti scalcagnati: Mimmo ha una chitarra con una corda sola, Peppe canta con un microfono che emette scariche elettriche, e Tonino suona un bidone dipinto con la scritta “Punk 4ever”. Franco, che si è autoproclamato “effetti speciali”, lancia in aria peperoncini secchi come se fossero coriandoli, causando un’epidemia di starnuti tra il pubblico. Suonano Soppressata Anarchia, e la folla – un mix di hipster, punk nostalgici e nonne curiose – esplode in un pogo selvaggio, con zi’ Concetta che, a 92 anni, si unisce al mosh pit brandendo un cucchiaio di legno e urlando: “Forza, diavolacci miei!” Ma il momento clou arriva quando una band sconosciuta di Cosenza, i Carciofi Arrabbiati, si unisce a loro sul palco per una jam session improvvisata. È un caos totale: il cantante dei Carciofi, un tipo con un tatuaggio di un carciofo sul collo, si mette a urlare versi dei CCCP mentre Tonino lancia in aria un carciofo vero, che finisce dritto in testa a Franco, facendolo cadere su una cassa di birra. Mimmo, Peppe e i Carciofi finiscono con una versione grunge-punk di Black Hole Sun, e il pubblico – ormai un’unica massa sudata e felice – canta a squarciagola, mentre le stelle sopra Malvito sembrano danzare al ritmo di quel casino glorioso.

Malvito Grunge Fest  (Terza parte)

Il Malvito Grunge Fest del 2014 non fu solo un concerto, ma un vero e proprio inno alla bio-diversità antropologica, musicale ed esistenziale, un’esplosione di gioia fracassona e scanzonata che solo i piccoli posti sperduti della provincia meridionale sanno regalare – provare per credere! In quel triangolo di paesi calabresi – Mottafollone, Malvito e Sant’Agata di Esaro – dove il tempo sembra essersi fermato agli anni ’90, la piazza di Malvito si trasformò in un circo surreale degno di uno sketch comico di quel periodo, un misto tra Mai dire Gol e il Pippo Chennedy Show. I Peperoncini Sporchi, con i loro strumenti scalcagnati e le loro vite più storte di un ulivo secolare, dimostrarono che non serve essere perfetti per fare musica che arriva dritta al cuore: la loro chitarra con una corda sola, il microfono che sembrava posseduto da un poltergeist e il bidone di Tonino, dipinto con un “Punk 4ever” scritto con l’uniposca, erano la prova vivente che il caos può essere meraviglioso.

Mimmo, Peppe, Tonino e Franco – ognuno con le sue cicatrici, i suoi sogni e un guardaroba che urlava “grunge calabrese” – trovarono nel mix di grunge e punk un modo per celebrare chi erano, senza vergogna, come guerrieri di un’apocalisse musicale che profumava di soppressata e ribellione. Mimmo, con la sua camicia a scacchi bucata e un tatuaggio fai-da-te di Kurt Cobain fatto con una penna a sfera, saltava sul palco come se fosse posseduto da uno spirito punk, mentre gridava versi dei CCCP storpiati in dialetto: “Siamo qui, siamo vivi, e mangiamo ‘nduja!” Peppe, con un paio di occhiali da sole rotti tenuti insieme con lo scotch, cantava Alive dei Pearl Jam con un accento che trasformava “I’m still alive” in un “Ahi’m stìl alàiv” che sembrava un lamento di un caprone innamorato, facendo sbellicare il pubblico. Tonino, che aveva sostituito il bidone con un vecchio water di ceramica trovato in una discarica e decorato con adesivi di Anarchia nel Pollaio, lo percuoteva con una mazza da baseball urlando “Rivoluuuuzioneeee!” mentre una gallina, scappata da chissà dove, gli svolazzava intorno come un’improbabile groupie. E poi c’era Franco, il manager, che si era presentato con un cappello da cowboy di plastica rossa e un megafono rotto, annunciando “Signori e signori, i Peperoncini Sporchi, i Nirvana del Sud!” prima di inciampare su un cavo e finire a testa in giù in un barile di olive in salamoia, emergendo con una foglia di alloro appiccicata in fronte e gridando: “È per l’arte, zi’!” Il pubblico era un melting pot che sembrava uscito da un sogno lisergico: hipster con barbe lunghe e magliette di band che non avevano mai ascoltato, punk con creste sbiadite tenute su con la lacca della nonna, nonne con il fazzoletto in testa che agitavano mestoli di legno come se fossero bacchette da concerto, e bambini che correvano in cerchio con peperoncini legati ai polsi come braccialetti punk. A un certo punto, zi’ Concetta, 92 anni e una leggenda del paese per le sue maledizioni creative, si lanciò in un pogo selvaggio con un gruppo di hipster, usando il suo bastone per “guidare il ritmo” e urlando: “Forza, diavolacci, fate tremare il diavolo!” Nel frattempo, un tizio di Sant’Agata, noto come “Pasquale il Caprone” per la sua abilità di imitare il verso delle capre, decise di unirsi al concerto con un assolo di belati che si intrecciava alla perfezione con la voce di Peppe, creando un duetto grottesco che fece scoppiare tutti in una risata collettiva. La jam session con i Carciofi Arrabbiati, una band sconosciuta di Cosenza, fu il culmine del delirio. Il cantante dei Carciofi, un tipo con un tatuaggio di un carciofo che sembrava più un cavolo andato a male, si mise a urlare versi dei Negazione mentre lanciava carciofi veri al pubblico, uno dei quali colpì Franco in pieno petto, facendolo rotolare giù dal palco come un birillo umano, con un carciofo che gli rimaneva incastrato nei baffi come un trofeo vegetale. Mimmo, in un momento di pura follia, decise di fare stage diving, ma il pubblico, composto principalmente da nonne e bambini, non era pronto a sostenerlo: finì dritto su un carretto di melanzane sott’olio, emergendo con una melanzana appiccicata alla schiena e urlando: “Questo è grunge, zi’!” Tonino, non volendo essere da meno, trasformò il suo water in un’arma da lancio, scagliandolo verso il cielo con un grido di “Anarchiaaaa!” – il water atterrò su un palo della luce, causando un corto circuito che fece piovere scintille sulla piazza, mentre il pubblico gridava di gioia, scambiandole per effetti speciali. In quel caos glorioso, il Malvito Grunge Fest divenne molto più di un concerto: fu una celebrazione della diversità, un’esplosione di gioia selvaggia che unì generazioni e stili di vita diversi in un abbraccio collettivo. I Peperoncini Sporchi, con il loro punk-grunge calabrese e i loro strumenti improbabili, dimostrarono che la musica non ha bisogno di perfezione per toccare l’anima: basta un bidone, una chitarra scordata e un cuore ribelle. 

Epica rinuncia alla fama (Quarta parte)

Il successo del Malvito Grunge Fest catapulta i Peperoncini Sporchi sotto i riflettori nazionali. Un produttore di Milano, un tipo con occhiali a specchio e una giacca di pelle sintetica che sembra urlare “sono un talent scout”, li contatta con un’offerta da capogiro: i Peperoncini Sporchi sono stati selezionati per partecipare a X Factor, con la promessa di un contratto discografico e un tour mondiale. Non solo: Mediaset li vuole al Grande Fratello VIP, dove “potrebbero fare scintille con la loro autenticità”, e persino all’Isola dei Famosi, immaginandoli a costruire un bidone punk con le palme e a cantare Soppressata Anarchia mentre pescano granchi. I tabloid impazziscono: “I Peperoncini Sporchi, i ribelli calabresi che conquistano l’Italia!” titola Chi, con una foto di Franco che mangia un panino con la ‘nduja mentre Tonino fa un gesto punk al fotografo. La band si riunisce nel bar di Peppe a Sant’Agata, sotto un poster sbiadito di Eddie Vedder, per decidere il da farsi. Mimmo, con un bicchiere di vino rosso in mano, fissa il vuoto: la fama lo tenta, ma sa che X Factor significherebbe cantare cover di Sanremo con un’orchestra, tradendo lo spirito di Kurt Cobain. Peppe, che sta pulendo il bancone con una spugna, scuote la testa: “Ahi’m stìl alàiv, ma sull’Isola dei Famosi mi fanno mangiare solo cocco, e io senza soppressata muoio!” Tonino, con una chiave inglese in mano come se fosse un microfono, è categorico: “Il sistema ci vuole ingabbiare! Io non suono per Simon Cowell, io suono per le galline di Malvito!” Franco, che per l’occasione si è messo una cravatta leopardata comprata al mercato, sogna il successo: “Ragazzi, pensateci! Potremmo avere una villa a Los Angeles, con una piscina a forma di peperoncino!” Ma quando vede gli sguardi dei suoi “figli ribelli”, capisce che il loro cuore batte altrove. La decisione arriva in una notte epica, degna di un film hollywoodiano. I Peperoncini Sporchi organizzano un ultimo concerto clandestino sulle colline di Mottafollone, sotto un cielo stellato che sembra un riflettore naturale. Il palco è un trattore abbandonato, decorato con peperoncini secchi e una bandiera anarchica che Tonino ha rubato al circolo Arci di Malvito. La folla – i soliti hipster, punk, nonne e bambini, più qualche capra scappata da un recinto – si raduna in un silenzio quasi sacro, illuminata solo da torce e dai fari di qualche Fiat Panda parcheggiata male. Mimmo prende il microfono, che fischia come un gatto arrabbiato, e parla con una voce che trema di emozione: “Zi’, noi siamo i Peperoncini Sporchi. Non siamo fatti per la tv, per le isole dei famosi o per i talent. Siamo fatti per questo: suonare insieme, sudare insieme, ridere insieme. Questo è il nostro grunge, il nostro punk, il nostro modo di essere ribelli sognatori di provincia!”

La band attacca con una versione selvaggia di Soppressata Anarchia, e la collina esplode in un’energia che sembra scuotere le fondamenta del Pollino. Mimmo suona la sua chitarra con una corda sola come se fosse posseduto, le note distorte che si mescolano al canto dei grilli. Peppe urla con la sua voce da trattore, mentre una capra gli morde la camicia, aggiungendo un tocco di caos animalesco. Tonino percuote il water di ceramica con una mazza da baseball, e il pubblico poga così forte che zi’ Concetta perde il fazzoletto e finisce per ballare un tarantella-punk con un hipster barbuto. Franco, con le lacrime agli occhi, lancia in aria l’ultima maglietta dei Peperoncini Sporchi, che atterra su una capra, trasformandola nella mascotte ufficiale della serata. Mentre il cielo si incendia di stelle cadenti – o forse sono scintille di un altro corto circuito causato da Tonino – i Peperoncini Sporchi chiudono con una cover di Where Did You Sleep Last Night, dedicandola a Kurt Cobain e a tutti i sognatori di provincia che non si arrendono mai. La folla esplode in un applauso che si sente fino a Cosenza, e in quel momento, i Peperoncini Sporchi capiscono che la vera fama non è in un contratto discografico o in un reality show: è in quel mucchio selvaggio di anime ribelli, unite dalla musica e dalla gioia di essere esattamente chi sono. Rinunciano alla celebrità, restando duri e puri, conservando la loro dignità e il loro modo di vivere la musica, la vita e l’essere solo dei ribelli sognatori di provincia, sotto un cielo calabrese che canta con loro.

Malvito Grunge Fest: la leggenda dei Peperoncini Sporchi

Una storia di Dario Greco


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