The Subterraneans di Jack Kerouac

 


«Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza e senza far tanti retorici preamboli come faccio ora; in altre parole questa è la storia di uno sfiduciato che non è più padrone di sé e insieme la storia di un egomaniaco, per costituzione e non per facezia — questo tanto per cominciare dal principio con ordine ed enucleare la verità, perché è proprio questo che voglio fare.» (Jack Kerouac)

Jack Kerouac ha violentato a tal punto la nostra immacolata prosa che essa non potrà più rifarsi una verginità. Appassionato cultore della lingua, Kerouac sa come usarla. Da virtuoso nato qual’è, egli si compiace di sfidare le leggi e le convenzioni dell’espressione letteraria ricorrendo ad una comunicazione rattratta scabra liberissima tra scrittore e lettore. Come ha detto egli stesso assai bene in The Essential & Spontaneous Prose: ” Prima soddisfa te stesso, e poi al lettore non mancherà lo choc telepatico e la corrispondenza significante perché nella tua e nella sua mente operando le stesse leggi psicologiche” . La sua integrità è tale che qualche volta dà l’impressione di andar contro i suoi stessi principi (Cancro? Canchero! Cosa importa, finché c’è la salute!). La sua cultura, tutt’altro che superficiale, lui si permette di strapazzarla come cosa di nessun conto. Contare? Niente conta. Ogni cosa ha la stessa importanza o non-importanza, da un punto di vista strettamente artistico.

Tuttavia sarebbe insensato dire che è uno scrittore freddo, cool. Anzi: è caldo, hot, incandescente. E mentre è lontano, distaccato, è anche vicinissimo ed espansivo, un fratello carnale, un alter ego. E’ qui e in ogni luogo, una specie di Ognuno. Spettatore ed oggetto contemplato. “Un santo della prosa, gentile, intelligente, sofferto” ha detto di lui Allen Ginsberg. Si dice che il poeta, o il genio, precorra sempre i tempi. Vero, ma perché è tanto fortemente del suo tempo. “Smuovetevi”, incalza il poeta. “Non vedete che è tutta roba vecchia, roba di centomila anni fa?” (En marche! diceva Rimbaud.) Ma i cacastecchi non sono capaci di stargli dietro per questa strada. (Loro non sono ancora riusciti ad accettare Isidore Ducasse di Lautréamont.) E perciò che fanno? Ti buttano fuori dal nido, ti riducono alla fame, ti ficcano i denti in gola. Qualche volta sono anche meno pietosi: sostengono che non esisti neppure.

Tutto ciò che Kerouac ha descritto – questi personaggi – fantastici, fantasmagorici, ubiqui, ossessivi che hanno nomi che si possono leggere a dritto e a rovescio, queste vedute d’America struggenti, nostalgiche, intimamente grandiose, stereottiche, l’incubo di queste sfrenate corse nel vento su macchine truccate – e in più il linguaggio che egli usa (un Gautier alla rovescia) per descrivere le sue “cielo-terrestri visioni” , il rapporto che esiste tra queste ipergoniche stravaganze e quelle perenni fioriture che sono l’Asino d’oro, il Satyricon e il Pantagruel, non sfugge neanche ai lettori di “Time” e di “Life” , dei condensati e dei fumetti.

Il buon poeta, o in questo caso lo “spontaneo prosodista bop” , è sempre sensibile alla lingua parlata del proprio tempo: lo swing, il beat, il ritmo metaforico-sincopato che possiede una rapidità, una vivezza, una pugnacità così incredibilmente (benché spassosamente) pazzesche, da risultare irriconoscibili fissate sulla carta. Irriconoscibili a tutti, s’intende, tranne che ai poeti. Poi la gente dice che l’ha “inventato” il poeta. Insinuando che l’ha diluito. Per dire : “L’ha preso”. L’ha preso, svuotato, afflosciato. (“Te lo sei ben lavorato, nazista.”)

Quando uno chiede: “Ma dove l’ha presa questa roba?” rispondi. “Da te!” Senti un po’: questo qui sta sveglio tutta la santa notte ad ascoltare con le orecchie e gli occhi. Una notte di mille anni. Ascolta in grembo a sua madre, ascolta in culla, ascolta a scuola, ascolta nella sala borsa della vita dove si barattano sogni contro oro. E bada: è stufo di ascoltare. Vuole muoversi. Sbocciare. Ma tu glielo permetti?

Questa è un’epoca di miracoli. Il tempo dei superuomini è finito; i maniaci sessuali sono relegati in un limbo, gli spericolati funamboli si sono rotti l’osso dl collo. Epoca di meraviglie, in cui i nostri scienziati, con l’aiuto e per istigazione degli alti sacerdoti del Pentagono, distribuiscono gratuite informazioni sulla tecnica della distruzione, mutua ma totale. Progresso, eh sì! Ma realizzarlo in un romanzo leggibile, se sei capace. Ma non cianciate di vita-e-letteratura se siete dei necrofagi. Non scocciateci con discorsi di buona letteratura “pulita” – senza contaminazioni radioattive! Fate parlare i poeti. Saranno magari beat, ma non cavalcano certo nessun Jagannath a propulsione atomica. Credetemi, non c’è niente di pulito, non c’è niente di sano, nulla promette un’era di meraviglie – nulla tranne la parola. E l’ultima parola l’avranno probabilmente i Kerouac.

Quanto più giro il mondo, tanto più mi stupisce (e mi fa un immenso piacere) scoprire quanti lettori entusiastici abbia Kerouac. E tanto mi impressiona questo interesse mondiale per le sue opere se penso quanto sia difficile da tradurre. Naturalmente i giovani dappertutto sono curiosi del movimento dei beatnik, in rapporto al quale Kerouak sembra stare nella stessa posizione di un André Breton rispetto al Surrealismo. Io però non penso che la valutazione di Kerouac debba essere costretta dentro i limiti della sua società con i beatnik. 

Kerouac è uno scrittore molto originale che potrebbe, senza sforzo, essere considerato caposcuola in qualsiasi movimento. Penso che egli sia il più promettente di tutti i giovani scrittori contemporanei, almeno in America. Come Thomas Wolfe, egli è posseduto da una forza vulcanica. E’ un poeta che con la sua opera dimostra una verità enunciata una volta da René Crevel: “la mancanza di coraggio è letale.”

E forse il suo maggiore contributo alla letteratura americana è proprio il coraggio che ispira ad altri scrittori. Dopo aver letto Kerouac è difficile ritornare a scrittori come Dos Passos, Hemingway, Steinbeck… o anche… anche al sottoscritto.


HENRY MILLER | Dall’introduzione all’edizione italiana de I sotterranei (Feltrinelli, il 15 giugno 1960) 

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